lunedì 20 febbraio 2023

CONFONDERE E POI CANCELLARE


Ma sì, cancelliamola una volta per tutte! Si abbia però il coraggio di farlo, senza girarci troppo intorno. Pensiamo davvero che sarebbe bastato l'artifizio della PIT LANE RULE per garantirle sufficiente credibilità?

La marcia probabilmente ha fatto il suo tempo. Schiacciata dalla febbre del risultato spettacolare ad ogni costo, col conseguente effetto di portarsi su velocità imbarazzanti, anche grazie all'uso spregiudicato di pratiche doping, alle prossime Olimpiadi muterà nel definitivo (io credo) mostricciattolo sportivo i cui connotati, a me pare, sono tutt'ora "oscuri". È che non ho ben compreso se la marcia olimpica sarà individuale, sui 20 km e sui 35 km, sarà "relay" (a staffetta, ma sulla distanza dei 42,195 km; ergo: finalmente non sarà più improprio definire la marcia come maratona), mista sui 35 km e individuale sui 20 km o chissà cos'altro.

Posto che la marcia alle prossime Olimpiadi si farà, atleti e tecnici del Gotha della disciplina si chiedono come programmare la loro preparazione a un anno e mezzo dall'evento massimo.

E come ci si qualificherà per l'Evento Massimo? Con quali criteri di selezione?
Ma ci sarà davvero la marcia alle prossime Olimpiadi?

Ma sì, tutti a casa: atleti, tecnici e giudici, vittime e carnefici - vittime e carnefici sono equamente distribuiti tra atleti, tecnici e giudici, sia chiaro. 

Salviamo solo una cosa, però (io già ci lavoro da un po'): la marcia come strumento per la salute; la marcia che guida e corrobora il cammino sportivo coi suoi contenuti tecnico-scientifici. Ma questo è un altro discorso.

domenica 5 febbraio 2023

UMANIZZARE I SOGNI

 


Spesso nello sport - ma anche nella vita - si passa il tempo dentro cervellotici crivelli tecnici: cioè si va alla ricerca ossessiva di mezzi e metodi di allenamento super raffinati, meticolosamente organizzati in piani di lavoro che manderebbero in crisi finanche il più pignolo tra i Grandi Maestri di scacchi - nota è la maniacalità con cui questi si preparano alle competizioni.

Ah, la tecnica. Ah, le ricette miracolose per il successo, un'asticella posta sempre troppo in alto, ahimé.
Voglio perciò ricordare innanzitutto a me stesso che esiste una capacità da allenare quotidianamente, dalla cui solidità ed efficienza dipendono non solo i meri risultati agonistici nel breve e nel medio termine, ma soprattutto la crescita dell'atleta e la longevità della sua carriera. Essa è la capacità di resistere al disagio.

A tale proposito lo psicologo Pietro Trabucchi, in "Resisto Dunque Sono" (2007), nell'interessante capitolo "Saper incassare, perseverare", scrive:

"La capacità di resistere al disagio, si tratti di frustrazioni psicologiche o sofferenza fisica, ha una radice comune: essa è di tipo cognitivo e e origina nel sistema di aspettative dell'individuo. Perfino la percezione della fatica, come dimostrato da alcuni esperimenti, è influenzata dalle aspettative del soggetto.
Un sistema fatto di attese eccessivamente elevate rende molto più vulnerabili alla frustrazione."

E ancora:

"Il sistema di attese dell'individuo è influenzato fortemente dall'ambiente sociale e dalla cultura ricevuta. La società attuale alimenta la costruzione negli individui di sistemi di aspettative irrealistiche perché troppo elevate. Questa modalità poco efficace di vedere il mondo non ha nulla a che vedere con il vero ottimismo: piuttosto si tratta di una forma di ingenuità infantile che ha molto a che vedere con l'ottimismo «panglossiano». Estrazioni culturali di tipo diverso, come ad esempio quelle di origine contadina, , favoriscono lo sviluppo di un sistema di aspettative tolleranti nei confronti del disagio e della frustrazione. Lo dimostra la storia di vari campioni negli sport di resistenza."

E infine:

"È possibile intervenire sulla propria capacità di gestire la frustrazione verificando e modificando il proprio sistema di aspettative a priori. Ma anche educando il proprio sistema di attese ad indirizzarsi in modo più realistico. Tuttavia non bisogna dimenticare che il nostro cervello è stato creato capace di sperimentare frustrazioni in quanto esse hanno un'utilità pratica: ci spingono a cambiare le situazioni, a muoverci, a modificare la nostra vita. Le frustrazioni sono veramente dannose solo se eccessive e troppo prolungate in quanto creano «impotenza appresa»."

sabato 12 novembre 2022

LEGGENDO CERTI AMERICANI


Leggevo un autore americano, un coach benemerito, a proposito di “ingredienti del successo” nello sport.

Ogni tanto torno al pragmatismo statunitense che negli allenatori a stelle e strisce sovente è una miscela di empiria giocata sul campo e ricerca scientifica, anche ben documentata. Il tutto si traduce in chiare narrazioni a mo’ di consigli facilmente spendibili nel quotidiano reale.

Premetto che l’allenatore americano benemerito si riferisce a mezzofondisti e fondisti dell’atletica, in età da college, e pone in cima ai sopra citati "ingredienti del successo" l’”abilità innata” che potremmo definire impropriamente “talento”, ciò che il buon Dio - o più ‘laicamente’, mamma e papà - ci ha donato: struttura fisica, sistema cardiorespiratorio, eccetera eccetera.

Al secondo posto viene indicata la “motivazione intrinseca”, ciò che molto sinteticamente definirei volontà di successo, nella pratica della disciplina in questione.
Il potenziale campione perfetto è la somma di “abilità innata” e “motivazione intrinseca”.

Poi c’è l’ingrediente “opportunità”, che potremmo individuare nel contesto sociale e familiare di provenienza, nelle agenzie educativo-formative di riferimento (scuola, associazioni sportive, eccetera) e, non da ultima, detta prosaicamente, anche la sospirata botta di culo.

Per ultimo, udite udite, il benemerito allenatore cita l’”indirizzo”, cioè il contributo tecnico, dato dall’allenatore o anche dall’autoformazione (le letture, gli studi, nomadici o ufficiali che l’atleta fa in proprio). E su questo - come sugli altri punti - ci sarebbe tanto da discutere.

Il coach americano quindi ridimensiona il peso del supporto tecnico, vuoi che sia il frutto della ricerca personale dell'atleta, vuoi che discenda dall'impegno di un allenatore di comprovata competenza. E nel farlo cita pure l'esempio di certi coach di blasonate università americane che devono la loro fama all'enorme bacino di talenti da cui 'pescano' campioni a profusione, spesso applicando il metodo del "breaking eggs against a wall" (letteralmente: rompere le uova contro un muro); ovvero: ho un gruppo di ragazzi talentuosi, li spremo come agrumi sotto una pressa e quei pochi che reggono - perché alla fine, sui grandi numeri qualcuno regge - andranno a bersaglio. (Quanti ne ho visti di "eggs distroyer", anche dalle mie parti).

Spesso tendiamo a sopravvalutare, mitizzandolo, il ruolo dell'allenatore perché egli, per necessità o per tendenza personale ad occuparsi di ambiti professionali non di sua pertinenza, risolve - più spesso tenta di risolvere - problemi, un po' come Mr Wolf di "Pulp Fiction". E anche su questo tema potremmo discutere, scrivere per giorni e giorni.

"Nihil sub sole novum", niente di nuovo sotto il sole, direte Voi. Tutte cose che, almeno i miei colleghi e chi si occupa professionalmente di Atletica Leggera, conoscono molto bene e da un po'.
Ma è proprio l'ovvio, ciò che è palesemente evidente, a sfuggirci, sovente. E certi autori americani hanno il merito impagabile di ricollocarlo nella giusta dimensione e tornare a farci riflettere.

Ah, dimenticavo. L'autore americano, il coach benemerito di cui sopra, si chiama Jack Daniels, e non è quello del whisky omonimo.


Comm

venerdì 30 settembre 2022

INSEGNANTI DI EDUCAZIONE FISICA NELLA SCUOLA PRIMARIA: LA FINTA RIVOLUZIONE CHE SA DI BEFFA

 


Ne ho incontrati diversi. Si aggirano perlopiù spaesati, per corridoi scolastici che non portano a nessuna palestra. Perché sovente le palestre nella scuola primaria mancano del tutto. 

Sono insegnanti precari, laureati in Scienze Motorie, selezionati dalle GPS (Graduatorie Provinciali per le Supplenze). Lavorano circa sei ore settimanali in più dei colleghi della scuola secondaria, ma con uno stipendio, seppur di poco, inferiore.

Quest’anno insegnano solo ai ragazzini delle classi quinte. Dall’anno prossimo saranno impegnati anche con quelli delle quarte. Ed è già caos: tra spezzoni orari improbabili, i “non maestri di educazione fisica” saltano da un plesso scolastico all’altro, costringendo, loro malgrado, presidi e loro collaboratori ad ardite acrobazie nella gestione del tempo scuola, rientri pomeridiani inclusi.

Sì perché, sempre loro malgrado, si inseriscono a organizzazione oraria già definita e senza che per loro sia stato previsto, da contratto, un tempo per programmare le attività didattiche con i cosiddetti “maestri elementari” (oggi insegnanti di scuola primaria).

Perché da contratto, noi cosiddetti “maestri elementari” programmiamo le attività educativo-didattiche per due ore ogni settimana. Siffatta educazione fisica nella scuola primaria è l'ennesimo contentino di uno Stato che pacifica la propria coscienza e gioca a risolvere problemi cruciali e complessi tirando i dadi. Altro che programmazione.

Il disegno di legge di bilancio 2022, art. 103, "Insegnamento curricolare dell’educazione motoria nella scuola primaria", al comma 1 recita:

Al fine di conseguire gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza e di promuovere nei giovani, fin dalla scuola primaria, l’assunzione di comportamenti e stili di vita funzionali alla crescita armoniosa, alla salute, al benessere psico-fisico e al pieno sviluppo della persona, riconoscendo l’educazione motoria quale espressione di un diritto personale e strumento di apprendimento cognitivo, nelle more di una complessiva revisione dell’insegnamento dell’educazione motoria nella scuola primaria, è introdotto l’insegnamento curricolare dell’educazione motoria nella scuola primaria nelle classi quarte e quinte da parte di docenti forniti di idoneo titolo e la correlata classe di concorso “Scienze motorie e sportive nella scuola primaria”.

Belle parole. Poi c’è la realtà dei fatti.
Poveri bambini. Poveri insegnanti. Poveri noi.

sabato 13 agosto 2022

SE SON ROSE NON BASTA IL GIARDINIERE

(foto da farm-it.desigusxpro.com)

Qui si parla di alto livello nello sport. E, forse, anche d'altro - lo sport come  traslato esistenziale e, se volete, l'educazione per tutta la vita.
Chi non si ferma alle apparenze e non si pasce di facili mitologie ad uso dei social - quelle, per intenderci, pronte a santificare guru, o pseudo-guru dell'allenamento sportivo - sa che dietro ogni successo sportivo vero (l'ultimo aggettivo è d'uopo) c'è il sapiente ordito di una pluralità di intelligenze dialoganti; e se qualcuno pensa all'allenatore come ad un direttore d'orchestra dovrebbe ben sapere che cos'è l'uno e cosa è l'altra.

Insomma, lo dico subito: non ho molta simpatia per i coach onnipresenti, (fintamente) onniscienti, che cercano di legare a sé, a tripla mandata, i propri atleti, in barba a quello che dovrebbe essere il primo obiettivo di ogni insegnante (un allenatore è un insegnante): l'autonomia dell'atleta che accompagna.

L'allenatore che vive costantemente l'ansia di dover dimostrare al mondo la sua (presunta o reale) bravura, forza sistematicamente i tempi della crescita dei propri allievi; anche la comunicazione allenatore-atleta risente negativamente di tale tensione, generando molto spesso fardelli insostenibili per "spalle" decisamente acerbe.

Con queste premesse il drop out giovanile diventa una soluzione obbligata. (Soluzione come via di fuga).

Riusciremo mai a mettere da parte "Io" per un pacifico, solido, costruttivo "Noi" dialogante?


 

domenica 31 luglio 2022

TRENT'ANNI FA, OGGI

 


Cerco di non pensare alla velocità con cui sono passati i trent’anni che separano la finale della 20 km di Marcia dei Giochi della XXV Olimpiade a Barcellona, da questa presente – e forse più afosa di allora – giornata di luglio.

Trent’anni fa avevo ventisette anni. Mio fratello ventiquattro. Se fossi nato quel giorno, quel 31 luglio del 1992, oggi ne avrei appunto trenta, comunque tre anni più “vecchio” – forse più esperto? – di quell’allenatore che ero in quei giorni; un ragazzetto bellino, poco più che adolescente, con dentro tre-quattro sane certezze e tanta curiosità e voglia di imparare.

Mio fratello vinse una medaglia ben più preziosa del metallo di cui è composta. L’unica medaglia per l’atletica leggera italiana in quell’edizione delle Olimpiadi. Un podio ossimorico perché raggiunto con rabbia e serena fiducia nel supporto intelligente di un formidabile gruppo di lavoro; un gruppo di amici veri.

Giovanni, mio fratello, si fece beffe della malasorte. Riprese a marciare con una certa regolarità solo quaranta giorni prima della finale olimpica, dopo circa venti giorni di stop per un banale incidente: una sciocca partitella di calcio post allenamento, due contro due, al Sestriere a maggio.

Ricordo la salita che porta al Montjuïc. La feci d’un fiato, ma non riuscii a raggiungere Giovanni. Entrai trafelato dentro lo stadio, ma Giovanni era già arrivato. E poi la corsa al villaggio olimpico. Appena fuori dall’ingresso troneggiava una grande vasca a mo’ di fontana luminosa, e seduto sul bordo, con le gambe a mollo a cercare un po’ di refrigerio, c’era il mitico Gabriele Pomilio. Era quasi buio e Gabriele, placidamente, quasi senza guardarmi, mi disse: “ Godetevi questo momento. Avete fatto una cosa grossa assai”. Nove giorni dopo, il 9 di agosto, Gabriele Pomilio, abruzzese come me, imprenditore geniale e allora consigliere federale nazionale della pallanuoto, portava a casa l’oro olimpico. E tra i “magnifici sette” che piegarono le velleità di vittoria dei padroni di casa, capitanati da Manuel Estiarte, c’erano due pescaresi: suo figlio Amedeo e Marco D’Altrui.

Trent’anni fa avevo ventisette anni, e la lezione di quella straordinaria esperienza la compresi diversi anni dopo.
Credo di aver scritto tanto di quell’impresa, ma una volta di più voglio ricordare quanto sia stato importante il contributo di un’armonia perfetta di volontà intelligenti, appassionate e orientate allo scopo.

Ero l’allenatore, sì. Ma se ho avuto un merito dentro quella formidabile vicenda – qualcosa che ritengo, senza presunzione, abbia fatto la differenza – non è stato il mero ‘contributo tecnico’, che comunque ho dato. Credo che l’attività più nobile, difficile e decisiva ai fini del risultato finale, sia stata quella di aver tenuto insieme un team vincente, di amici, prima che di professionisti. Ecco, quella è stata l’arma segreta. Quello è l’insegnamento più alto che ho appreso fino ad oggi, non solo nello sport.
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Co

giovedì 28 luglio 2022

MARCIACCIA O CORSACCIA?



Lo scandaloso arrivo - peraltro vincente - della "marciatrice" francese nella finale dei 5000 metri di marcia (la tentazione di mettere le virgolette al termine è forte assai) al Festival Olimpico della Gioventù Europea, getta guano a palate su una disciplina la cui credibilità regolamentare è prossima a zero già da un po' - da un bel po', ahimé.
L'ennesimo post "apocalittico", "tafazzista" sulla Marcia Atletica? No. O, almeno, spero non venga interpretato come tale.
Il problema, a mio modesto parere, è che si stia accelerando, autolesionisticamente, verso la rottamazione della disciplina (si veda, appunto, il finale "vittorioso" dell'atleta francese agli EYOF).

Non giriamoci intorno: le velocità tenute dai cosiddetti marciatori, oggi, vanno ben oltre la possibilità di restare 'vicini' al suolo (non dico di restare 'incollati' al terreno) entro i confini della "decenza tecnica" (ma chi stabilisce quali siano tali limiti? In base a quali parametri?).
Fintanto che non verrà introdotto un sistema di valutazione del gesto che almeno integri il giudizio "occhiometrico" (quello "naked eye", il solo ammesso dal regolamento tecnico), saremo in balìa delle polemiche più diverse.

Bisogna, in qualche modo, tentare di "oggettivizzare" la disciplina.

Giusto dieci anni fa un matematico e fisico americano, Henry Reich, dal suo canale di YouTube, "minutephysics", lanciò una provocazione che sbobinai, traducendola alla meno peggio (cliccare qui per l'interessante video di Henry Reich: Is Racewaking a Sport?):

"Questo non ha nulla a che fare con la fisica, ma con la Marcia. Ecco le regole: cammina in modo che un piede sia sempre a terra e tieni la gamba davanti tesa; in breve, cammina in modo buffo, velocemente. Qualcosa di buffo anche tra le regole, come i giudici che per determinare se un atleta sta “marciando”, possono solamente stare fermi ad un lato del percorso e giudicare ad OCCHIO NUDO se un atleta SEMBRA marciare.

Potrai pensare che per uno sport definito così tecnicamente, ci si possa avvalere di tutta la tecnologia possibile per far valere le regole. Quindi la marcia è ancora ferma ai secoli bui? Voglio dire, ci sono altri sport che non permettono ai giudici di vedere i replay, ma quando pensi all’elettronica nella scherma, il foto-finish nell’atletica, i touchpad del nuoto, e il tracking 3D delle palline da tennis… I giudici della marcia, d’altro canto, sembrano piuttosto indietro. Gli è proibito guardare dal livello del suolo o usare tecnologie moderne come specchi o binocoli. Quindi come fare con tutta questa burocrazia marciante?

Se guardi attentamente il passo in slow-motion o anche una fotografia dei marciatori stessi, ti renderai conto che quasi tutti si sollevano da terra… Non solo occasionalmente per una spinta o per non inciampare, che è permesso, ma quasi ad ogni passo. Infatti, è BEN NOTO alla comunità dei marciatori che la maggior parte di loro lascia il suolo regolarmente e può anche stare in aria fino al 10% del tempo… quindi TUTTI infrangono le regole.

Ora, gli sport sono pieni di regole arbitrarie… ma il fatto che la maggior parte degli atleti infranga la regola che DEFINISCE questo sport è perlomeno… sorprendente! E non è come il sospetto che quasi tutti i ciclisti professionisti si dopano, perché mentre ci sforziamo costantemente per beccare chi si dopa, non usiamo tutta la tecnologia a disposizione per beccare i marciatori “volanti”.

Sembra chiaro che la tecnofobia nella marcia deriva dal fatto che se si iniziasse ad usare telecamere ad alta velocità, potrebbero non avere più uno sport. E questo ci porta alla domanda sulla vera essenza dello sport – perché tutti i giochi, in realtà, sono solo un insieme arbitrario di regole e limitazioni a cui ci sottoponiamo con lo scopo di divertirci e sfidarci a vicenda. Voglio dire, c’è un motivo se l’atletica vieta le biciclette, il ciclismo vieta le moto, e il motociclismo proibisce l’uso dei razzi… Forse quelle ragioni sono arbitrarie tanto quanto nella marcia è bandita la tecnologia… Perché l’obiettivo non è tenere i piedi per terra – è vedere chi è il più veloce a camminare in modo buffo, come nel salto triplo per chi va più lontano con un salto buffo, nella corsa ad ostacoli chi riesce a correre più velocemente con barriere di plastica sulla sua strada, e il tennis per vedere chi sa mandare meglio una palla oltre una rete, ma solo entro certe linee accuratamente disegnate e con una racchetta e non con pagaie o mani o piedi.

Alla fine, non si tratta di sport, ma dei giocatori e le loro sfide. È quanto siamo in grado di spingere lontano i confini delle abilità umane… entro i confini definiti dalle regole. E così è la marcia, uno sport in contraddizione, che si aggrappa disperatamente al suo passato rifiutando di accettare la tecnologia che in principio migliorerebbe i giudici di questo sport, ma in realtà scuote le sue fondamenta? Non lo so.

Ma i marciatori sono atleti? Certamente".

Concludendo, mi viene da chiedere: atleti di quale sport?

martedì 26 luglio 2022

STANO, LA 35 KM E IL FUTURO DELLA MARCIA ITALIANA

Foto di FIDAL COLOMBO/FIDAL

Il successo di Massimo Stano nella 35 km dei Mondiali di Atletica Leggera di Eugene continua ad emozionarci, riproposto negli infiniti highlights di queste ore, in tv come nei social. Un capolavoro di talento e raffinata strategia, come ricordavo all'amico Maurizio Ruggeri nella diretta di gara in onda su RaiRadio1.

Allo stesso Ruggeri, qualche giorno prima della 35 km maschile di questi mondiali complicati (almeno per noi italiani), dicevo della scelta, assai azzeccata, del nostro campione olimpico, ovvero quella di spostarsi sulla nuova distanza, rinunciando alla più nota 20 km. Non una scelta 'semplicemente' coraggiosa, piuttosto l'esito di una riflessione ben ponderata. Massimo Stano e Patrizio Parcesepe, il suo allenatore, sanno che la 35 km è più 'vicina' alla 20 km che alla "defunta" (ahimé) 50 km. La 35 km è, quindi, una distanza per ventisti che sanno attendere qualche minuto in più, prima di sferrare l'esiziale progressione finale degli ultimi 8-10 km; un'accelerazione non violentissima ma ugualmente micidiale; e, forse, un filo più credibile tecnicamente dei concitati finali della 20 km.
Insomma, la 35 km risulta così essere una sorta di 20 km "allungata" e NON una 50 km più corta. Basti pensare al "podio fotocopia" della 20 km e della 35 km, femminili, sempre a Eugene. 

Stano ha perciò trovato la sua gara. Un ventista resistente con le qualità psicologiche di un paziente cinquantista. È la quadra perfetta.

E adesso che cosa accadrà alla Marcia? E all'Italia che marcia?

Lo dico subito: qui c'è il rischio concreto che, "sepolta" la 50 km, la 20 km faccia la stessa fine (e non voglio pensare neanche lontanamente alla possibilità di introdurre una staffetta mista come nuova disciplina!). Qualcuno potrebbe arrivare a dire: c'è la 35 km, non abbiamo bisogno di un "doppione".
Ma la 35 km, benché più credibile tecnicamente della 20 km - io però non ne sono molto convinto - viene giudicata dagli stessi occhi che hanno giudicato, e giudicano, tutte le altre distanze della specialità. Ergo...

L'Italia che marcia, Stano a parte, dovrà fare i conti con la "20 km allungata". E all'orizzonte, tolti Stano e Palmisano, vedo un bel numero di ragazze e ragazzi dal potenziale tecnico interessante, ma tutti ancora da "costruire", nella mente e nel "motore" (e nel "motore della mente"). La 35 km è sì 15 km più lunga di una 20 km, ma vuole comunque piedi veloci; coi giapponesi che possono permettersi di mandare alla "morte" uno dei migliori (giusto per capire che cosa succede a impostare una 35 km a 4'00" al chilometro) e coi russi che, prima o poi, torneranno.

giovedì 5 agosto 2021

IL BUON GIORNO SI VEDE DAL SOL LEVANTE

Foto di FIDAL COLOMBO/FIDAL

Il buon giorno del marciatore Massimo Stano si vedeva già dal mattino di quattordici anni fa. Chi ha buona memoria ricorda un quindicenne agilissimo e assai resistente capace nel 2007 di marciare in 17'07"3 la distanza dei 4 km su pista. Credo sia ancora la migliore prestazione italiana Under 16 (e chi gliela toglie).

Massimo Stano fu avviato alla marcia da Giovanni Zaccheo a Palo Del Colle (Bari). Era il 2006 e in quel periodo la Puglia brulicava di talenti del tacco-punta (Antonella Palmisano, Anna Clemente, Francesco FortunatoGiovanni Renò, solo per citarne alcuni) grazie alla dedizione di tecnici come appunto Giovanni Zaccheo, nel barese, e Tommaso Gentile nel tarantino, con la sua gloriosissima Atletica Don Milani, fucina inesauribile di talenti cristallini (Antonella Palmisano nasce atleticamente proprio lì).

Non sto qui a dirvi quanti siano stati gli 'inciampi' (infortuni a ripetizione e conseguenti problemi tecnici) che hanno impedito a Massimo di esprimere il proprio talento. Fu comunque capace di arrivare al bronzo nella 20 km degli Europei Under 23 nel 2013 (nel 2011 era entrato a far parte delle Fiamme Oro di Padova). A ottobre del 2013 si trasferì a Sesto San Giovanni per essere seguito dall'ex marciatore azzurro Alessandro Gandellini. Seguirono due anni nerissimi, il 2015 e il 2016, con microfratture alla tibia destra e successivamente alla sinistra.

Nel 2016 la decisione di cambiare ancora guida tecnica, trasferendosi a Castelporziano sotto le cure di Patrizio Parcesepe. Negli ultimi cinque anni non sono mancati i soliti problemi fisici, ma negli 'intervalli buoni' l'ottimo Massimo ha saputo mostrare al mondo lampi luminosissimi di assoluta eccellenza atletica; su tutti il record italiano nella 20 km in 1h17'45" realizzato nel 2019 a La Coruna, (Gran Premio Internazionale di Marcia Atletica Sergio Vázquez dei Cantones de La Coruña) classificandosi al 2° posto, in quello che poteva essere considerato un vero e proprio campionato del mondo della specialità.

Ancora due anni 'opachi' col Covid-19 a complicare le cose. Ancora problemi fisici nel 2021 risolti a circa un mese e mezzo dalle olimpiadi. E poi oggi, l'apoteosi, coi cinesi annichiliti, con gli spagnoli lasciati molto indietro, coi giapponesi a fare da comprimari; con Massimo Stano ad esprimere il gesto tecnico migliore tra quelli che picchiavano duro con lui, lì davanti.

Massimo, appassionato della cultura giapponese di certo conosce l'arte del kintsugi - letteralmente "riparare con l'oro" - che consiste nell'utilizzo di oro e argento, liquidi, per tenere insieme i frammenti di vasellame andato in pezzi. Amo pensare che il metallo guadagnato oggi a Sapporo serva a riempire i vuoti delle molte fratture che hanno martoriato la sua carriera, realizzando così, per traslato, quel capolavoro che ha proprio in quelle ferite la cifra della sua preziosità.

Grazie Massimo, per l'emozione fortissima e profonda che hai saputo darci oggi. Grazie Patrizio Parcesepe per averlo accompagnato tanto in alto, oggi.




venerdì 26 febbraio 2021

PALINGENESI?



Palingenesi, non è una parolaccia. Potremmo definirla "rinascita", qualcosa che ciclicamente invochiamo nella trita litania che accompagna l'insediamento di un nuovo governo, anche sportivo.

All'indomani della prima seduta del nuovo Consiglio federale FIDAL si torna dunque a parlare di rinnovamento, e tra le molte voci che ho ascoltato in questi giorni di grande e naturale euforia prevale, purtroppo, a mio modo di vedere, una nuda, stentorea richiesta di cambiamento; qualcosa che ha a che fare più con l’istinto, la pancia, che con il progetto.

Credo che non si possano pretendere miracoli da nessuno, soprattutto oggi, coi tempi durissimi che stiamo vivendo; bisogna quindi passare dalle speranze taumaturgiche a una profonda e onesta riflessione sul passato – da quello recente ai ‘gloriosi’ anni ‘80 – e sull’attuale temperie socioeconomica, per trovare, per una volta, la via di un progetto necessario che abbia il respiro più lungo – assai più lungo – di un mandato federale.

Non ho ‘ricette’ buone per tutte le stagioni. Credo che nessuno ne abbia. Ho però il vizio della memoria e, dopo esser tornato su carteggi personali di qualche anno fa, incrociati con studi recenti e rigorosi sulla Cultura sportiva del nostro Paese, vorrei cominciare a condividere qualche idea buona, per cominciare a progettare.
Inizio perciò col pubblicare l’email – datata, ha quasi dodici anni – di un amico, un ‘non addetto ai lavori’ (non addetto, ma molto addentro). A scrivermi è Enrico Longo, attento osservatore degli intricati garbugli dell’Atletica italiana. Non è un tecnico Enrico, neanche un dirigente sportivo (almeno non in atletica). È ‘soltanto’ una limpida voce critica, sanguinante ricordi di giovanissimo mezzofondista appassionato (fine anni ’70).

Con l'email che pubblico di seguito egli si inseriva in un dibattito telematico sul mio blog, "Opinioni Aerobiche", in merito al tema sempre caldo dell’organizzazione della ‘Cosa Fidal’; sul come provare a far ripartire l’Atletica. Non molte parole. Quasi uno sfiorare i temi cruciali. Ma quanta chiarezza; quanta profondità. Era il 29 settembre 2009. Il presidente della FIDAL era Franco Arese.

"Grazie, Mario,
per avermi coinvolto nella discussione. Come puoi immaginare, stando fuori dal mondo dell’atletica da molti anni, non ho più idea di quale sia oggi l’Organizzazione Federale, come siano composti i comitati, ecc.
Per parte mia ho la tendenza ad insistere sulla trasparenza della gestione economica. In un post sul tuo sito ho chiesto se qualcuno conosceva il Bilancio della Fidal (che esiste per forza). Sono andato sul sito fidal.it e non sono riuscito a trovarlo. C’è solo un accenno al consuntivo 2008 che parla di “seconda variazione di bilancio dell'esercizio 2009, per complessivi 805.000 Euro di investimenti, destinati in prevalenza ai Comitati Regionali ed alle esigenze dell'Area Tecnica”.
Non so se quei soldi sono tutto o solo parte di ciò che viene investito. Mi piacerebbe conoscere la situazione reale prima di parlare perché se i soldi sono pochi anche gli obiettivi perseguibili devono essere pochi.
Comunque, se in sede nazionale non c’è chiarezza, perché non partire dall’ambito locale? La Fidal Abruzzo fa un bilancio economico del proprio operato? Quanti soldi riceve dalla Fidal? Quanti dagli enti locali? Quanti da sponsor? Come vengono investiti? La risposta a queste domande sul sito fidalabruzzo.org non l’ho trovata. Forse è nell’area riservata. Comunque voi diretti interessati dovreste esserne a conoscenza. Se non c’è chiarezza sui danari diventa poi difficile parlare di obiettivi perseguibili. Si finisce per litigare fra poveri, come i topi in gabbia.
L’ambito locale, regionale o provinciale che sia, è quello, a mio giudizio, da cui occorre ripartire per quella che tu chiami ‘palingenesi’. I vertici nazionali non sono assolutamente in grado di riformare il movimento. Arese è il prodotto di un consiglio che lo ha eletto e non ha la forza per muoversi contro chi lo ha portato dov’è, ammesso che sia nelle sue intenzioni. Fidal è poi parte del CONI dove, a mio giudizio, la natura ‘politica’ dei rapporti si complica e porta a favorire l’uno o l’altro dei singoli, perdendo di vista il Movimento Atletico nel suo complesso.
Le rivoluzioni, ce lo insegna la storia, nascono sempre in ambito locale (Hu-Nan, Chiapas, Cantieri di Danzica, ecc.), a ‘Palazzo’ sono possibili solo colpi di mano, di solito a natura autoritaria.
Lo ribadisco, secondo me lo Sport, e quindi anche l’Atletica, deve avere due ‘attori’ principali: la Scuola e gli Enti Locali.
La scuola ha in mano i giovani, una parte degli impianti (le palestre e qualche campo) e un gruppo di insegnanti che magari sono demotivati dalle ultime ‘riforme’ ma forse sono ancora recuperabili, per dare una mano nella promozione, con qualche incentivo (esempio: punti in più in graduatoria per chi organizza Centri di Avviamento all’Atletica). Non saranno dei tecnici preparati ma spesso è più importante, per portare gente al movimento e farla gareggiare, una continuità di presenza sul campo piuttosto che una grande competenza specifica.
Gli enti locali hanno in mano il resto degli impianti (a parte le strutture private, che nell’atletica sono poche), la possibilità di tenerli aperti (distaccando personale di custodia che altrimenti si gratterebbe la pera in un ufficio) e qualche soldo da spendere. Soprattutto la Provincia (ente bistrattato, tanto che qualcuno lo vuole abolire) è l’ambito che ha la dimensione e la visibilità giusta per coordinare la disponibilità di ‘opportunità di fare atletica’ sul proprio territorio.
Recentemente ho scoperto che nello staff del presidente della provincia di Torino (Antonio Saitta) c’è una persona che si occupa di sport, ed è un allenatore di Atletica (Gianfranco Porqueddu). Spero che si muova nella direzione giusta, magari facilitando anche l’ingresso di ‘sponsor’ a livello locale.
Poi serve anche una struttura tecnica, con gente preparata, ed in questo la Fidal Regionale può fare la sua parte. Sempre che ci sia chiarezza sugli obiettivi e sui denari, altrimenti ogni discorso di qualità (efficienza ed efficacia degli investimenti) è pura fuffa.
Qualcuno, credo su Atleticanet, ha lamentato che l’Italia sia più lunga che larga e che un campionato italiano di categoria a Bari crei grossi problemi ai genovesi. Vero. Non è per fare il federalista (molto di moda oggi) ma in questo momento tutto ciò che è ‘nazionale’ è in crisi, non solo nell’atletica.
Meglio ripartire dall’ambito locale. Al vertice nazionale possiamo lasciare le dichiarazioni alla stampa (i commenti, avrai letto, parlano di ‘incredulità’ e ‘farneticazione’, per essere gentili) e i rapporti con il Ministero della Difesa (da cui dipendono quasi tutti gli atleti di vertice). Se il movimento continuerà sarà perché al ‘Città di Majano’ i ragazzini si sono divertiti a gareggiare (anche chi è arrivato in fondo alla classifica).
Complimenti per quello che riesci a fare, anche se con pochi mezzi.

Saluti cordiali
Enrico Longo"

lunedì 22 febbraio 2021

IL TEMPO LUNGO DEI MIGLIORI


Uno dei problemi principali dello sport italiano, in generale, è quello del tempo da impiegare per tornare a recitare un ruolo di primo piano nelle competizioni internazionali (Mondiali/Olimpiadi).

Un problema insolubile per chi da un bel po' ha fatto proprio il metodo della politica nazionale, con l'orizzonte che gioca con la punta del naso, o delle scarpe, di dirigenti e tecnici (non tutti, ma quasi, ahimè).

Messi come siamo - in atletica e non solo - non ci vuole il profeta illuminato di turno per immaginare la 'cura' necessaria: tre-quattro lustri, a partire da oggi, da dedicare alla ricostruzione (forse meglio costruzione "ex novo") di un sistema sportivo sano, che muova dai giovanissimi - tutti i giovanissimi - e non dal fenomeno di turno, peraltro sempre più raro.

Se ripartiamo oggi, quindi, ci vorranno non meno di quindici anni per "mettere le cose a posto". E dentro questo tempo ci possono stare pure due-tre mandati federali, per ogni federazione sportiva; un presidente nazionale potrebbe non vedere, da presidente, i possibili frutti maturi dell'impegno proprio e del suo staff. E forse è proprio questo il problema.

sabato 13 febbraio 2021

GENERAZIONE DI CERCA-FENOMENI


Si parla – e si scrive – sempre più insistentemente di bambini prodigio capaci di correre, a lungo e velocemente, tra lo stupore compiaciuto di molti adulti.
Sui social c’è chi commenta gridando al ‘delitto’, e chi invece sbeffeggia chi si scandalizza, costruendo ardite teorie, popolate di instancabili frugoletti Nandi, Kalenjin, Kikuyu, e pure di preadolescenti norvegesi dal moto perpetuo, anticipato e velocissimo, elevato dai loro genitori e dagli altri adulti di riferimento a pratica quotidiana indifferibile; a valore morale assoluto.

Confesso di non commentare più queste cose, direttamente. Ne ho noia. Riflettendoci su, trovo che in molti – troppi – stia montando la convinzione che la soluzione ai 'mali' dello sport italiano (o forse solo quello che si ritiene essere il 'male' dell'atletica italiana: la mancanza di campioni) sia quella di una precoce specializzazione dei cosiddetti talenti. E crediamo così ferocemente in questo da arrivare a spellarci le mani in applausi pure coi ‘record’ (le virgolette non stanno lì per caso) di bambini di sette, otto anni.

Se non vogliamo solo ‘giocare’ agli scienziati che con studiato distacco emotivo osservano lo svolgersi del fenomeno – quel fenomeno – spesso convinti che esista un’altra etica, al di fuori dell’etica, allora dobbiamo ‘riavvolgere il nastro’.

Che cos’è lo Sport? Riconosciamo ancora in esso un’attività che può contribuire significativamente alla crescita dei giovani? E i genitori? Qual è la corretta sinergia tra famiglia e insegnanti (perché anche gli allenatori sono insegnanti)?

Scrive la mia amica Laura Bortoli:

“[…] I genitori ovviamente desiderano sempre il meglio per i propri figli, ma spesso non conoscono realmente il contesto e le peculiarità dello sport giovanile; di frequente le loro convinzioni si rifanno a quanto appare dai mass media, dove l’enfasi è usualmente solo sulla vittoria, esasperata ed a volte ricercata a tutti i costi.
Può anche essere utile spiegare ai genitori in maniera sintetica qual è il percorso motorio che può portare i giovani a sviluppare in maniera ottimale le proprie capacità e ad acquisire, al di là dei gesti tecnici, molteplici abilità.” (da “Insegnare per allenare”, SdS Edizioni, 2016).

Laura Bortoli suggerisce pure un esempio di codice di condotta da consegnare (ogni associazione sportiva dovrebbe farlo) ai genitori, riportato dagli autori Weinberg e Gould (2014):

- resta nell’area degli spettatori durante le gare;

- non dare consigli all’allenatore su come deve allenare;

- non fare commenti offensivi nei confronti di tecnici, giudici di gara o altri genitori;

- non dare istruzioni a tuo figlio durante le gare;

- non bere alcolici durante le gare e non andare alle gare se hai bevuto troppo;

- fai il tifo per la squadra di tuo figlio;

- mostra interesse, entusiasmo e sostegno a tuo figlio;

- controlla le tue emozioni;

- renditi disponibile ad aiutare se ti viene richiesto dagli allenatori o dai giudici di gara;

- ringrazia gli allenatori, i giudici di gara e gli altri volontari che hanno contribuito all’organizzazione  dell’evento.

Per ora mi fermo qui. Per ora.


lunedì 18 gennaio 2021

DELLA NECESSITA', DELL'ADATTAMENTO

(Ph by Encyclopædia Britannica, Inc.)

“La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo.”
(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

“Ha da passà ‘a nuttata”. Il traslato però non aiuta, dacché la pandemia ‘gira’ dalle nostre parti da più di un anno e, in barba al vaccino, continuerà a ‘lavorare’ per almeno un altro anno buono.

Ci incazziamo coi no-vax, malediciamo chi ci governa, ci incazziamo con chi indossa le mascherine, insultiamo chi le tiene sotto il naso; rivendichiamo il nostro diritto a muoverci liberamente così come invochiamo lunghissimi lockdown e coprifuoco.

Ma il virus fa il virus e va avanti per la sua strada. Mentre continuiamo a far finta che tutto ‘rientrerà’, che il mondo tornerà a girare secondo regole, abitudini e nevrosi pre-Covid, perdiamo tempo preziosissimo.

È cambiato il modo di fare scuola - detto banalmente così - di praticare e seguire lo sport. La pandemia mette a nudo certe grottesche nefandezze dei sistemi di valutazione scolastica. Non si può verificare la preparazione di un alunno facendolo bendare dinanzi al suo laptop; ma qualcuno l’ha fatto.

Non si può - non si potrà forse ancora per un paio d’anni - partecipare alle manifestazioni sportive dove si corre insieme a migliaia di appassionati. Gli spalti di stadi e palazzetti dello sport saranno vuoti ancora per molto tempo.
Né della scuola né dello sport potremo mai fare a meno. Forse è arrivato il momento di adattarci, progettando quel cambiamento, necessario e ora improcrastinabile, forse mai agìto per molle, umana pigrizia.

martedì 29 dicembre 2020

PRENDETE E MANGIATENE TUTTI


Sia chiaro: non ce l’ho con gli chef stellati. Né storco il muso dinanzi a certe genialità del marketing; e neppure mi scandalizzo quando in nome di un’economia da far ripartire si ‘benedicano’ patatine all’acrilammide oppure dolci dalla dubbia qualità degli ingredienti che li compongono.

Sia chiaro pure che non ce l’ho con chi ‘fa voti’ affinché si investa danaro pubblico per progetti formativi di imprenditori, locali o stranieri; illuminati o meno.
Senza denari non si canta la messa, recita il trito adagio levantino. D’accordo. Ma credo ci sia bisogno anche d’altro, soprattutto in questo particolare momento storico. 

Il nostro è un tempo ‘complesso’, quanto mai incerto, dominato dalla precarietà dei valori e dal disorientamento, che trovano espressione compiuta in quel disagio giovanile del quale, a me pare, troppi parlano e pochissimi – soprattutto a livello istituzionale – si preoccupano, con scienza e coscienza.

La crescente fragilità dei sistemi relazionali – quelli familiari e non – come quella dei sistemi economici e del lavoro determinano quel senso di precarietà e di smarrimento che riconosciamo nei nostri giovani, sempre meno capaci di progettare e ‘progettarsi’, per il futuro, anche a breve termine.

Da educatore e tecnico dello sport credo ferocemente nell’efficacia di un’educazione orientata alla comprensione della “complessità del reale”. Lo Sport – il vivere lo sport come tirocinio alla mutevolezza dell’esistenza – con le sue opportunità di confronto, di dialogo, di relazioni ‘giocate’ con il corpo e la mente, può educare alla capacità di scelta e alla capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Così da poter pure distinguere tra un cibo spazzatura e qualcosa di egualmente gustoso, ma più sano.

Esiste finanche – pensate un po’ – un’imprenditoria sportiva buona che, in soldoni, non fa solo cassa. Quell’imprenditoria avrebbe bisogno di far proprie alcune lezioni di marketing dello chef stellato di turno; e pure delle concrete attenzioni delle istituzioni locali e nazionali.

venerdì 25 dicembre 2020

SFIDE PER POCHI


Mi piacciono le sfide sportive, che sono sempre ragionate; ponderate.
Le sfide, in questo senso, non hanno nulla a che vedere con le scommesse (io che non gioco manco il “gratta e vinci”).

Le sfide che intendo io sono sempre progetti condivisi, al cui centro c’è sempre l’atleta. L’obiettivo, il primo, il più importante, è la sua autonomia, che non significa fare a meno degli altri, ma la piena realizzazione della sintonia tra l'atleta stesso, la realtà circostante e tutte le persone che, a vario titolo, partecipano al progetto.

C'è bisogno pure di fiducia. Tanta fiducia. E di coraggio, di cui, inevitabilmente, l'atleta dovrà armarsi. Perché per raggiungere gli obiettivi più nobili è necessario, ad un certo punto, cambiare, abbandonare certe rassicuranti consuetudini e nascere altrove; per crescere.

Il successo, quello vero, è per pochi. (Quanti atleti - e non solo - si son persi per strada). 

Auguro a me stesso e ai miei compagni di viaggio ogni migliore energia volta alla realizzazione di progetti buoni. 
Buon Natale.

lunedì 21 dicembre 2020

IL PROGRAMMA

 


C’è sempre bisogno di “qualcosa di scritto”. Sì, carta canta.

‒ Me lo fai un programma? ‒ è il refrain dell’atleta (o anche pseudo tale) che sogna il successo e che non vuole perder tempo a pensare, a ragionare sul da farsi.

Il programma è il programma di allenamento, of course. La bacchetta magica, l’abracadabra che tiene lontani gli infortuni di ogni sorta; la “coperta di Linus” da stringere a sé ogni qualvolta il pensiero va all’imminente competizione.

Il programma di allenamento lo vogliono liofilizzato, buttato dentro un bicchiere: due giri di cucchiaino in acqua calda, e via.
Hai voglia a ragionare di pianificazione, periodizzazione e poi – molto poi – di programmazione e, quindi, di programma; di questo distillato, sovente, si ignora del tutto la genesi; soprattutto la storia personale di chi l’ha prodotto.

È così che gli allenatori diventano distillatori di numeri in successione sessagesimale; essi trasformano i sogni in verità approssimate. E, in fondo, qualcuno tra loro gongola pure quando ciclicamente torna il puerile refrain.

‒ Me lo fai un programma?

lunedì 14 dicembre 2020

CUM GRANO SALIS

 

Giovanni Grano vince il Campionato Italiano di Maratona 2020 a Reggio Emilia (ph da Atleticalive.it)

Giovanni Grano (Nuova Atletica Isernia) è il nuovo campione italiano di maratona. La sua prestazione mi ha molto colpito: un atleta molisano, non di primissima fascia - absit iniuria verbis - porta a casa in un colpo solo sia un titolo sportivo assai prestigioso, sia il primato personale (2:14:31) sulla distanza più consona alle sue attitudini atletiche (scorrendo la statistica delle sue migliori prestazioni noto un datato 30:21.5 sui 10000m in pista e un recente 1:04:06 nella mezza maratona).

Leggo sul sito federale, Fidal.it, che Giovanni Grano vive in Svizzera da quattro anni e lavora a tempo pieno come ricercatore di informatica presso l'università di Zurigo.

Giovanni Grano segue i programmi di Luciano Di Pardo, suo allenatore da sempre (ed anche allenatore dell'abruzzese Daniele D'Onofrio (Fiamme Oro), fresco reduce dalla maratona di Valencia, dove ha esordito col tempo di 2:15:40).

Giovanni Grano, dunque, non si allena 'a tempo pieno'. E non indossa una divisa militare. Fa, evidentemente, il giusto; ciò che gli ha permesso, comunque, di capitalizzare i talenti che ha.

Si può quindi studiare, lavorare, allenarsi ed esprimersi al meglio delle proprie potenzialità.

Cum Grano salis. Cum Grano cogito...

venerdì 11 dicembre 2020

INNOCUI NARCISISMI AFFETTUOSI



Spesso Facebook diventa la vetrina privilegiata di innocui narcisismi affettuosi. Definisco così quei post che celebrano imprese e pseudo-imprese di atleti, o pseudo tali, dimenticate un po' da tutti, fuorché dagli estensori di quegli stessi post.

Sovente sono foto ingiallite, per nulla a fuoco, oppure foto da smartphone di vecchie classifiche battute a macchina e tirate al ciclostile.

Ogni tanto cedo anch'io alla tentazione di mostrare al mondo - perché crediamo davvero che Facebook sia tutto il mondo - che da ragazzino e da giovanotto qualcosa sapevo fare, sgambettando.

E quindi ecco saltar fuori, grazie all'amico Augusto, un paio di ritagli tratti dalla rivista federale "Atletica". Piccola archeologia sportiva giovanile. Era il 1981, "luglio flagrava", ed io, coi miei 'pochi' sedici anni, correvo 12 km a 3:17.2/km...

lunedì 19 ottobre 2020

HOMBRE VERTICAL


 
Quanto valgono gli esempi che quotidianamente ci offre Alessio, col suo procedere silenzioso e determinato?
Quanto valgono la sua crescita sportiva e umana costanti, senza clamori, la sua fedeltà ai valori che guidano ogni suo passo, la tenacia e la speranza nei momenti più difficili?
Quanto vale la sua lealtà? Quanto la sua modestia (che non è altro che un onestissimo, limpido senso della realtà)?

Nella mia carriera ho allenato numerosissimi atleti; talenti notevolissimi, Campioni ed anche molti ‘amatori’ dal curricolo sportivo povero assai; ed oggi posso dire che Alessio Bisogno è quello che ha radicato in me la convinzione che il titolo più prestigioso è nel raggiungere, anche solo per un momento, quel traguardo simbolico e per nulla mondano che può bastare a dare un senso alla vita intera; e a illuminare un po’ anche l’esistenza altrui.

Grazie di questi magnifici quindici anni di compagnia e di Amicizia, Alessio.

martedì 15 settembre 2020

FERMI TUTTI

 

Ci preoccupiamo, giustamente, dell’educazione civica dei nostri ragazzi; progettiamo currricoli verticali laboriosissimi, ‘difficili’, pesando ore, minuti, secondi da dedicare annualmente a qualcosa che, a me pare, tende, mestamente, a piegare sulla china dell’ennesimo, italico, complicato esercizio burocratico.

Da maestro della scuola Primaria, che lavora in un plesso scolastico con organizzazione oraria a tempo pieno, ho anche altre preoccupazioni, più 'elementari' e urgenti. Vengo perciò subito al dunque.

Qualcuno ha pensato alle conseguenze di otto ore filate inchiodati ad un banco - le uscite dall'aula saranno contingentate per i noti motivi sanitari - ricreazione e post mensa inclusi, con l'ora di educazione fisica da praticare possibilmente all'aperto (dove?) o all'interno di palestre che garantiscano un'adeguata aerazione e il dovuto distanziamento interpersonale di due metri?

Qualcuno ha pensato all'aggressività, alla rabbia represse, 'compresse', dei nostri bambini? E il sistema immunitario, dentro quelle otto ore, che sorte avrà?

Ma non c'è solo questo.

Il bambino - e non solo il bambino - apprende attraverso il movimento, il gioco; è storia nota. 
Di più: "L'apprendimento logico-matematico o logico-razionale non è un apprendimento attraverso i sensi, ma è legato alle azioni che si compiono per risolvere problemi. I problemi che vengono affrontati, partendo dai bambini, che vi si approcciano attraverso il gioco, attraverso l'esperienza ludica, fino ai problemi che vengono affrontati anche alle scuole superiori o all'università, sono sempre, in ogni caso legati  - anche se sotto forma di euristica - all'associazione alle proprie esperienze motorie; perciò il partire dalle esperienze motorie, in ogni caso, anche per le istruzioni di tipo superiore, è di fondamentale importanza...". (Beppe Pea, "Dal corpo alla matematica", intervista del 1 dicembre 2016).

Qualcuno avrà testa e cuore per un curricolo, 'vero', praticabile, per l'Educazione al Corpo e al Movimento?