martedì 21 ottobre 2014

Podismo ed epica rovesciata

Sempre più di frequente mi chiedo quanto ci sia di veramente sano, salubre, nella pratica di certo podismo amatoriale contemporaneo. Chi mi conosce sa quanta e quale passione mi lega al 'variopinto' mondo dell'endurance in atletica leggera, una realtà 'multidimensionale' affascinante e complessa che, nella 'variante' amatoriale, stradale, a mio avviso va piegando verso una preoccupante forma di delirio collettivo.

Podismo ed epica rovesciata, dicevo. Troppi 'eroi' di un nonsense podistico (e perché no, ciclistico e natatorio; c'è anche il triathlon) votati alla cieca consunzione psicofisica, fanno proseliti e cominciano a farmi pensare...

Tempo fa un amico su facebook mi scriveva così: 

"Mario io sono convinto che la maggior parte dei runners della domenica corrono per il piacere di farlo, i tapascioni sono persone pulite,che non hanno mai vinto niente, speso tanto, ma hanno tanta voglia di fare sport, forse per dimagrire inizialmente, ma poi vengono fuori delle storie di vero amore verso questo sport che ha dell'incredibile, io ne conosco tanti che amano profondamente questo sport semplice chiamato corsa/camminate!!! Forse noi dobbiamo fare di più per coinvolgere ragazzi, scuole e sempre più persone, perché lo sport è vita!!!".

Gli risposi di getto: 

"Apprezzo il tuo entusiasmo e la tua visione di questo variegatissimo mondo che è il podismo (nelle sue molteplici declinazioni: running, race walking, camminata sportiva e, perché no, anche nordic walking). Io però, perdonami, parto da un'ottica decisamente più disincantata. Quando parlo di "piacere di correre" intendo il correre per stare bene (leggasi ricerca della migliore salute possibile), attraverso la pratica di una disciplina dall'altissimo valore sociale (lo stare bene insieme agli altri).
Conosco il podismo amatoriale, tanto da poter affermare che sono davvero molti quelli che, prima o poi, vengono travolti dalla 'nevrosi' di superare muri e muretti cronometrici, così come questo o quell'avversario,anche a rischio di passare dal sano piacere ad una strana forma di masochismo. Me lo dice il numero crescente di "caduti sul campo" (leggasi podisti infortunati) e di famiglie in crisi (udite udite) a causa di un'esasperata interpretazione del concetto di "pratica sportiva". Potrei (e forse dovrei) andare avanti argomentando in modo più preciso e profondo queste tematiche ma, a mio avviso, esse meritano uno spazio diverso, meno angusto, di una finestra dei commenti di facebook.
Concludo perciò associandomi al tuo pensiero, forse ingenuo ma sicuramente affettuoso, rivolto ai nostri giovani, aggiungendo che il loro coinvolgimento nella pratica di qualsivoglia attività sportiva possa avvenire attraverso un'educazione, prima che un mero addestramento. Augurandoci di avere un giorno adulti consapevoli, persone che, come Te, al di fuori di ogni premio o posizione in classifica, portino con simpatia ed entusiasmo, su di sé, i frutti positivi di uno stile di vita inimitabile".

Credo però che la realtà odierna sia assai distante dall'ottimismo beneaugurante con cui concludevo il commento.

sabato 18 ottobre 2014

La parola "campione"


Si fa presto a dire "campione", oggi. Presto, anzi prestissimo. Sinceramente ne ho piene le tasche di genitori ipercoinvolti nella vita sportiva dei loro figlioli; papà (e anche mamme) prontissimi nell'incalzare allenatori ed educatori con il trito refrain "dove potrà arrivare mio/a figlio/a?", piuttosto che 'limitarsi' a seguire, alla giusta distanza, l'esperienza formativa intrapresa. (Esiste un patto educativo tra genitori e insegnanti? Esistono ancora gli insegnanti?).
Badate bene, qui non voglio negare la possibilità che un giovanissimo talento riesca a realizzare il sogno (proprio o altrui) di diventare un campione dello sport, ci mancherebbe. È che del significato del termine "campione" ho un'idea precisa; etica. Qualche anno fa scrissi una definizione 'romantica' di campione nelle discipline dell'endurance podistico (marcia e corsa), a proposito della vicenda umana e sportiva di un mio caro amico: 

"A me piace l’accezione medievale del termine. Campione come duellante in difesa di una causa nobile. Nello sport, il nostro sport, me lo figuro un po’ Parsifal, un po’ Sisifo. Un cavaliere appiedato per scelta e condannato all’amore per la fatica".

Ma i genitori di quei poveri ragazzini, 'aspiranti campioni', ignorano chi siano Parsifal e Sisifo e, ahimè, tanto altro ancora. Lacune culturali e morali di cui non hanno consapevolezza e che spesso (sempre più spesso) li inducono ad arrogarsi il ruolo di tecnici ("Tanto, bene o male, ho capito come si fa; sono sei-sette anni che accompagno mio/a figlio/a allo stadio").

Oggi si fa presto a dire "campione", dicevo. E ne ho piene le tasche pure di quelli che su facebook, come nei discorsi per strada, usano l'appellativo enfatizzando oltre misura l'ennesima affermazione podistica amatoriale del tapascione di turno.

Negli ultimi sette anni ho allenato prevalentemente atleti mediocri, in partenza (spero non si offenda nessuno: mediocre vuol dire nella media; nel mezzo tra due estremi); nessun talento straordinario. Bravi ragazzi che hanno dimostrato di 'capitalizzare' i loro numeri al meglio (a volte andando addirittura ben oltre ogni più rosea aspettativa agonistica), crescendo prima come persone e poi, di conseguenza, come atleti. E non è un caso che i risultati migliori dei più giovani siano scaturiti da un'intesa armonica tra genitori e allenatore, da quell'equilibrio che è rispetto dei ruoli e giusta distanza tra le figure di riferimento. Quando questo meccanismo virtuoso si è inceppato i ragazzi sono spariti (spariti nel senso che hanno abbandonato l'attività; chi subito, chi dopo il "giro delle sette chiese", alla ricerca dell'allenatore perfetto).

In Abruzzo, dove vivo e alleno, di campioni (veri; l'aggettivo non appaia scontato, pleonastico) in atletica ne ho conosciuti davvero pochi. Ho avuto la fortuna e il privilegio di allenare il più forte di essi: mio fratello Giovanni. La buona sorte di aver visto (quasi) tutto mi dà una pace assoluta che somiglia molto all'atarassia.

lunedì 21 aprile 2014

L'apparir correndo

Basta un timido sole che occhieggia tra una nuvola e l'altra e la complicità del calendario che corre inesorabile verso giugno (et ultra), che facebook si riempia di singolari promozioni di tipo pseudo-salutistico in chiave "endurance", atletico e non. Cerco di spiegarmi meglio con un esempio, pure nel tentativo di smentire il divino Flaiano ("Se lei si spiega con un esempio non capisco più niente"). Dalle mie parti il marciapiede della riviera è tutto un pullulare di "uomini di ferro" (molte le donne, in verità) che corrono a tutta manetta e a tutte le ore del giorno, bardati con magliette e fuseaux variopinti e con ai piedi calzature che pesano meno dei loro lacci. Nella maggior parte dei casi sono over 40 dai trascorsi atletici risibili e persi dentro vagonate di pranzi, pranzetti, cene e cenette il cui numero è pari soltanto ai finti sensi di colpa che agitano in modo convulso i loro arti inferiori.

Per carità, ogni motivo è buono per muoversi, per abbandonare il divano e cominciare a bruciare grassi 'cattivi'. Ma in molti casi, a guardar bene l'espressione contratta e truce di certi volti, si ha l'impressione che una veloce e bizzarra forma di nevrosi collettiva si diverta a fare strage di neo e vetero-sedentari, ognuno con l'alibi forte della salute a tutti i costi e con il sogno segreto (ma neanche tanto) di poter tagliare il traguardo di una prova dell'Ironman (meglio se davanti al compagno di squadra e di allenamento) oppure di stracciare questo o quel "crono" nella maratona. Ecco perciò il fiorire di un mercato paraculo e in linea con il crescente bisogno di apparire 'fenomeni dell'endurance', narcisi del VO2max e della potenza lipidica.

Recita così la réclame: "Allenati con noi: programmi di allenamento per singoli e gruppi; personal training. Massaggi, ceretta totale integrale (donna, uomo), pulizia viso". E il cerchio si chiude. Veloci alla meta e glabri, perché non si dica: "Non ce l'ho fatta per un pelo".

domenica 13 aprile 2014

Il sorriso sereno della volontà

Scrivere (ancora) di Vanessa mi imbarazza un po'. Non sono affatto incline all'autocelebrazione ed essendo io il suo allenatore è molto facile che con questo scritto possa naturalmente contravvenire al mio personale dettato morale. Ma ci sono storie che meritano di essere narrate e perciò sono disposto a correre questo rischio.

Vanessa sorride. E dentro quel sorriso c'è tutto il suo mondo. Vorrei che i ragazzi che alleno (ma anche tutti gli altri, sportivi e non) facessero tesoro dell'esperienza di quel volto disteso, mai contratto seppur affaticato nel duro impegno quotidiano. Chi ha fatto sport agonistico, chi ha corso e marciato a lungo per obiettivi importanti, conosce il dolore soave della fatica, che muove dallo stomaco per serrare la gola. Ebbene Vanessa conosce pure, per istinto ed educazione, quell'arcano capace di sciogliere il grumo scuro di sofferenza inesorabile, destino inevitabile di chi cerca ogni giorno la propria vetta. L'arcano è un sorriso leggero.

Oggi, nel giorno del suo esordio in Nazionale a Podebrady (suggellato da una splendida vittoria), le auguro di continuare a crescere dentro quella leggerezza, donandone un poco anche a noi.