giovedì 28 novembre 2019

NUNC SCRIBENDUM EST

Donna Luisetta de Benedictis
Ma chi è l’uomo medio? È colui che ha negato per secoli che la terra girasse, che ha gettato nel rogo le streghe e ha bruciato i pazzi; che ha massacrato Pisacane e gli eroi del Risorgimento. È colui che è destinato a essere smentito dalla storia, dalla vita e dalla scienza, mentre la Società si evolve e si trasforma!…
Vuoi vedere che l’uomo medio sono io? (Marcello Marchesi)

Oggi voglio divagare, e lasciare lo sport altrove. Oggi si parlerà di imitatio, imitazione, mimesis se volete, e di origini.
L’antropologo francese René Girard pone l’imitazione come istanza fondamentale dell’agire umano. Non occorre addentrarsi in discorsi antropologici e psico-filosofici, o essere insegnanti, per comprendere l’importanza dell’imitazione nei processi di apprendimento. Dal canto mio, in modo maldestramente empirico, posso citare la mia esperienza di scribacchino appassionato, iniziata proprio per imitazione (una strana forma di questa, in verità).

Ho imparato a leggere molto presto, prima dei cinque anni. Mio nonno era un lettore infaticabile; mia madre continua a divorare libri. Ma la forza della narrazione entrò prepotentemente nella mia vita ben prima che imparassi i segreti della lettura. Dai discorsi familiari infiniti, che si facevano nei lunghi pomeriggi d’inverno (quelli con poca televisione), appresi che avevo una sorta di missione da compiere; un “vivere per raccontarla”, tanto per citare Gabriel García Márquez. Certo, l’epica familiare dei de Benedictis ha agevolato il compimento di questo mio bizzarro destino. Gli ingredienti c’erano tutti. Intanto un re, Ferdinando I re di Napoli, detto il Ferrante. La rivolta dei baroni ribelli, contro la Corona. I mercenari al soldo della mia famiglia, a Francavilla, messi al servizio del Ferrante stesso. Il soggiorno del re nel palazzo dei miei. Il titolo di barone accordato nel 1457 ad Evangelista de Benedictis e ratificato cinquant’anni dopo. Qualche migliaio di ettari del feudo. E poi, tre secoli più tardi, la famiglia ad Ortona a Mare nel Palazzetto de Benedictis, già dei Vesij-Castiglione, col suo bel portale in pietra e la cisterna con un magnifico anello; le prime cariche pubbliche.

L’Ottocento portò il disappunto familiare per quella cugina che sposò un poco di buono, figlio di giocatori d’azzardo, inaffidabili e rosi dai debiti – a detta dei miei. Quella cugina era Donna Luisetta de Benedictis, la mamma del poeta Gabriele d'Annunzio.

Pier Saverio de Benedictis, padre del mio bisnonno, era tra gli sponsor del cenacolo di MichettiCascella e d’Annunzio (sempre rimanendo all’epica familiare). In una notte si giocò a carte almeno un centinaio di ettari della sua proprietà. Pier Saverio e la sua relazione “segreta” con una ballerina russa, Romanova il suo cognome; un figlio illegittimo, Bruto, con un cognome “locale”: l’italianizzazione di quello materno: Bruto Romagnoli. Bruto, “nascosto” a Roma; la sua strana infanzia ed adolescenza. La sua laurea in ingegneria e i soggiorni estivi ad Ortona all’ultimo piano del Palazzetto de Benedictis, (una specie di mansarda).

E poi il mio bisnonno, Gaetano de Benedictis, che iniziò a lavorare a quarant’anni; segretario comunale con funzioni di podestà. Un uomo buono e mite. Di lui si ricordano le centinaia di giovanotti riformati per scapolare la guerra; i documenti, preparati a tempo di record, per il sogno dell’Argentina. E tutto senza nulla in cambio (nonno Gaetano aveva un rapporto stranissimo col danaro e con la roba; aveva sempre avuto tutto il “necessario” e i soldi appartenevano ad un sistema economico “moderno” a cui non si era mai adattato).
Note erano le “truffe” dei mezzadri che, in processione il lunedì, gli comunicavano: “Lu baro’ sanne morte trenda pecore. E mo’?”, “Lu grane è poche”, e via dicendo. E lui che piangeva con loro, sempre dopo aver provveduto a “risarcirli”.
Il suo matrimonio con Flavia Cancellieri, nobildonna del Vasto, ricca discendente dei d’Avalos. Si innamorò del mio bisnonno attraverso una foto (ce l’ho ancora!) che lo ritrae baffi all’in su, vestito di bianco, panama incluso e bastone d’”ordinanza”.

La seconda guerra mondiale massacrò il mondo e segnò anche il destino dei de Benedictis.
Lo sfollamento, mio padre bambino trascinato per centinaia di chilometri assieme ai cuginetti.
Il rientro a Ortona, le mani sugli occhi per non vedere i soldati straziati che pendevano dai balconi.
E il socialismo “ufficioso” di mio nonno Mario, allora impiegato del catasto di Pescara; la spilla del partito scagliata con rabbia nel fiume Pescara alla notizia della caduta del fascismo; il suo socialismo “ufficiale” e il sindacalismo feroce dal 1945. La passione, inconciliabile, per d’Annunzio e Pasolini. La sua profonda cultura, come “coltivazione lenta e costante dello spirito”.
D’Annunzio e Pasolini. Il parente e l’amico.


Del primo all’inizio ho avuto quasi repulsione. È stato per me quasi una condanna. “Sei il nipote di d’Annunzio, quindi devi scrivere bene”, questo il refrain che ha accompagnato parte della mia infanzia e tutta la mia adolescenza. Tanto da determinare in me una specie di afasia, una impraticabilità della scrittura. A scuola passavo dal nove al quattro, al “non classificato”. Il piacere di scrivere non esisteva più. La narrazione si era interrotta. Oggi torno spesso a d’Annunzio, quello de “L’onda”, di “Meriggio”, in “Alcyone”. Non è stato facile fare pace con lui.

E poi Pasolini. Lo conobbi che avevo dieci anni. Aveva la forma di un libro posato in pila con altri, sul comodino di mio nonno Mario (era “L’odore dell’India”). Pasolini è l’amico timido e misterioso che ritrovai a trent’anni, cagione di un rinnovato entusiasmo intellettuale, ancora oggi compagno delle mie peregrinazioni notturne sui sentieri della poesia, della politica, della linguistica. Anche grazie a lui ho ridefinito il mio rapporto con la cultura. Cultura come impegno sul campo.

La vita può iniziare con una fiaba.


martedì 19 novembre 2019

UN FIORE PER VITTORIO


Per diritto d'anagrafe ho avuto la fortuna di conoscere l'Atletica Leggera, quella intrisa di sanguigna e limpida umanità, praticata quotidianamente sul campo, con i giovani e per i giovani, lontana anni luce dalla logica dello sport spettacolo. Quell’atletica che, forse, per un triste gioco del destino, se ne andò nell'agosto del 1985 con Vittorio Maturo.

Vittorio è stato uno dei più grandi talent scout dell’atletica italiana (il termine è però improprio in quanto Vittorio non traeva nessun provento da questa attività, anzi…). Tra le sue scoperte, su tutti, gli olimpionici della marcia Vittorio Visini e mio fratello Giovanni.

Ricordo Vittorio Maturo col suo broncio proverbiale – burbero dal cuore buono – col cronometro e la fettuccia, con i nastri di nylon bianco e rosso, con le paline, assediato dalla caciara di centinaia di ragazzini, per i circoli didattici e le scuole medie di Pescara e provincia.

Ci voleva bene Vittorio; ci voleva atleti infaticabili e bravi studenti (proverbiali i suoi blitz a scuola, a colloquio con i professori), corretti sul campo come nella vita.
Oggi sono insegnante anche grazie a lui – io, qualche anno fa, studente confuso, con troppi chilometri sulle gambe e poca energia da spendere altrove – a testimonianza di un affetto sincero, concreto, che andava ben oltre il momento sportivo.

Oggi rifletto sul senso di una vita, quella di Vittorio; penso al senso di altre, interrogandomi sul significato di uno sport che è sempre più show business, coi suoi campioni drogati e coi giovani pronti ad imitarli, non solo sui campi di gara.

Penso ai mercanti di morte, ricchi alchimisti senza scrupoli che giocano a dadi con la vita degli altri, speculando sulla debolezza spirituale, culturale, morale di adulti e adolescenti.

Penso poi alle parole che Vittorio disse a mio padre a gennaio del 1978, quando io e mio fratello ci tesserammo per la sua società sportiva, la gloriosa Hadria Pescara: «Nino, come stanno col sistema cardiovascolare? L’hanno fatta la visita medica i ragazzi?»; un refrain che era solito ripetere a tutti quelli che firmavano il tesserino per lui.

Penso alla sua solitudine, a quando, per esorcizzare l'idea della morte, anima assetata d’affetto, era solito chiedere ai suoi ragazzi: «Quando morirò verrete a portarmi un fiore?».

Di Vittorio non si parla più.

Pier Paolo Pasolini, in una sua poesia, scrisse: «La morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter più essere compresi».

lunedì 18 novembre 2019

SORPRENDENTI ANONIMIE


Un’atleta etiope polverizza la migliore prestazione mondiale dei 15 km su strada. Di per sé il crono di 44:21, su una distanza non troppo frequentata, è eccezionale; leggendo però i passaggi di gara si rimane decisamente esterrefatti: 29:12 gli ultimi 10 km di gara (più veloci dell’attuale record mondiale femminile dei 10.000 in pista), 2:44 il decimo chilometro; 2:49, 2:52, 2:50 gli ultimi tre chilometri. 

Di questa ragazza non ricordo il nome, come non ricordo i nomi delle torme di atleti che negli ultimi cinque-sei anni corrono con apparente disinvoltura, settimanalmente, ogni distanza del mezzofondo e del fondo macinando tempi al chilometro da extraterrestri. 

Di lei non ricordo il nome, dicevo; ma l’eleganza del gesto sì. Ed è un vero peccato perché, forse, quel nome andrebbe mandato a memoria. 

Forse questo è il tempo della ‘velocità bruta’, che non concede nulla alla Bellezza, anzi, la annichilisce fino ad azzerarla coi suoi numeri fatti in serie e con la data di scadenza sempre più vicina. 

Penso che i record, e le anonime eccellenze atletiche che li ‘stampano’, seguano i ritmi del campionario estivo di questa o quella marca di calzature sportive.

sabato 9 novembre 2019

BREVE RIFLESSIONE SUL TALENTO SPORTIVO



Sono tornato a leggere l'edizione italiana del saggio di Vladimir b. Issurin, Athletic talent "Identification and its Development". Trovo che sia stata un'ottima occasione per fare chiarezza, una volta di più, su concetti troppo spesso abbandonati alla mercé dei luoghi comuni più triti.

Di certe esasperazioni agonistiche anticipate ho già scritto tanto. Sono solito ripetere che nello sport giovanile è nota la parafrasi del famoso adagio partenopeo: “Ogni scarrafone è talento a mamma soja”. A mamma, ma anche a papà.

Dinanzi alla ‘mediocrità atletica’ dei loro figlioli, certi ‘adulti’ non si rassegnano, anzi: rilanciano. “Deve fare le ripetute”, “quella gara non doveva farla; così non si velocizza”, “ma quando farà il salto di qualità?”, sono alcuni dei mantra che taluni genitori con vocazione da coach amano recitare agli istruttori dei loro figlioli, spesso in presenza di questi ultimi.

E se arriva qualche risultato discreto (discreto, non stratosferico), al primo momento di crisi, fisiologica e necessaria nella carriera di qualsiasi atleta, il genitore-coach perde la brocca. Cominciano così i pellegrinaggi da un allenatore all’altro, alla ricerca spasmodica di quello che non c’è; che non dovrebbe proprio esserci.

Il talento, vero, di un atleta può fare la fortuna di un allenatore. Così come la bravura di un allenatore può fare la fortuna di un atleta talentuoso (ché il talento da solo non basta). E la fortuna, vera, di un atleta - scarso, mediocre o campione che sia - è l’aver vissuto un’esperienza unica, formidabile, di crescita personale, sperimentando sul proprio corpo e nel profondo dell’anima la ruvida bellezza di un cammino difficile, ma possibile; di un abbraccio forte e rassicurante, comunque vada.

martedì 5 novembre 2019

Una nuova felicità per Sisifo


Le Olimpiadi di Tokyo si avvicinano e torno a chiedermi quale sia il valore autentico di una medaglia olimpica; oggi.

Temo che sia davvero difficile rispondere; e la risposta non sta “soffiando nel vento”.

Parlare di autenticità dinanzi agli ori, agli argenti e ai bronzi riassegnati per effetto di squalifiche per doping, 'a orologeria' e sempre troppo tardive, è cosa grottesca assai.

Quattro anni passano presto, ed eccoci di nuovo a discutere di olimpiadi, a fare voti affinché vi sia, per l'atletica italiana, la possibilità di ottenere qualche sparuta medaglia - in verità credo che nessuno sia più disposto ad illudersi - o almeno un tenue segnale di ripresa che apra alla sobria concretezza di un'inversione di tendenza.

Riformulo quindi la domanda iniziale e ne faccio subito un'altra: qual è il valore autentico di una medaglia olimpica vera? (L'aggettivo, ahimè, si pone come drammaticamente necessario). Possono ancora bastare talento e metodo - scientifico ed eticamente fondato - per raggiungere il podio di Tokyo?

Non ho risposte a buon mercato, ma credo che la sfida - seppur improba - vada comunque raccolta. Sisifo può essere diversamente felice.

domenica 3 novembre 2019

I TROPPI FANS DEL PODISMO (fans: farmaci anti-infiammatori non steroidei)



Pare che i miei ultimi post su certe 'esasperazioni podistiche' abbiano alzato un gran polverone.

Qualcosa di buono ne è sortito fuori: una riflessione collettiva ed equilibrata - cosa non comune -  sul fenomeno preoccupante e in velocissima espansione rappresentato dall'abuso di antidolorifici, in allenamento e in gara, da parte di molti (troppi) atleti amatori.

Sempre più spesso le bustine vuote di ketoprofene vanno a lastricare il percorso di questa o quella kermesse podistica, come coriandoli grotteschi di un pericolosissimo 'delirio' collettivo.

Riferisce al Corriere della Sera, Cesare Fiorentini, Direttore Sviluppo Area Clinica all’IRCCS Centro Cardiologico Monzino di Milano:

"I FANS infatti indeboliscono l’endotelio vascolare – quel tessuto interno di arterie e vene più a stretto contatto con il passaggio del sangue – rendendolo meno capace di vasodilatarsi e di rispondere allo stress a cui è sottoposto. Non solo, nelle persone con lesioni dell’endotelio i FANS destabilizzano quegli accumuli di grasso all’interno delle arterie - le placche aterosclerotiche - rendendoli liberi di “staccarsi” pericolosamente andando ad otturare altri vasi. Quando ciò si verifica a livello delle coronarie il risultato è un infarto, nel cervello è invece causa di ictus. Una ragione in più per assumerli solo quando servono".

E ancora: "Dal 2003 il ministero della Salute fa controlli a sorpresa nelle gare amatoriali di ciclismo e podismo. In 15 anni sono stati più di 20mila per un’unica, inquietante verità: un terzo degli amatori fa sistematico uso di antinfiammatori e antidolorifici per tacitare la sofferenza fisica e andare avanti".(Sandro Donati).

Parafrasando il pedagogista Roberto Maragliano dico che lo Sport non può essere alternativa seria al Mondo, che è poco serio. Lo Sport può essere però il luogo privilegiato dove è possibile praticare con successo valori umani universali.
È però necessario garantire un'autentica cultura del benessere che informi e formi cittadini consapevoli e competenti.

Potrei andare avanti, ma mi fermo qui.

sabato 2 novembre 2019

Rimedi taumaturgici fai da te


Domani si correrà la Maratona di New York.
Ed io torno a riproporre il mio pensiero su certe esasperazioni ‘sportive’.

Prosciutti, buoni benzina ai primi classificati e gare (molte le maratone); gare come se piovesse. Tutti campioni, il giorno dopo, sui social.

A vederli gareggiare, quei ‘campioni’, sembrano dare l’anima. E in effetti la danno; la sputano sfiatata ad ogni traguardo. Si amano e si odiano sul filo dei diciotto chilometri orari (i più bravi), i forzati del running di casa nostra, eroi del borgo e per una mezza giornata, una settimana al massimo, ché la domenica successiva si corre di nuovo.

Sembrano avere tendini d’acciaio, legamenti e articolazioni della stessa sostanza. I loro meccanismi di recupero parrebbero regolati da biochimiche extraterrestri.

Parrebbero.

Ogni tanto però qualcuno lì davanti si ammacca. Iniziano i pellegrinaggi infiniti presso santi e santoni della fisioterapia. Plantari d’ogni colore e consistenza promettono equilibri taumaturgici, dalla prima calzata. E se non funzionano (come può un plantare “curare” un’infiammazione?) allora giù con laser, ipertermia, diatermia e onde d’urto e chi più soldi ha più ne spenda; perché spesso – spessissimo – non c’è criterio scientifico dietro la scelta di questo o quell’intevento terapeutico.

Pochi seguono la logica trafila: medico di base, ortopedico/fisiatra (meglio se con una solida esperienza medico-sportiva), fisioterapista. Prevalgono le “mode”; il successo improbabile e rassicurante dell’amico che ce l’ha fatta curandosi con dieci sedute di...

Un suggerimento per gli organizzatori di manifestazioni podistiche: iniziate a pagare in buoni laser, diatermie, ecografie, risonanze, eccetera, eccetera; farete il tutto esaurito. Una moltitudine di vecchi (ma anche tanti giovani, ahimé!) runners traumatizzati non aspetta altro.

domenica 13 ottobre 2019

Il tempo dei muri da infrangere: tra ricerca scientifica, sogno e folle plaudenti

(Eliud Kipchoge, foto Reuters)

Eliud Kipchoge, keniano quasi trentacinquenne, campione olimpico e primatista mondiale della maratona, è sceso sotto il limite delle due ore, sulla distanza dei quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, appunto. 

Chiusa, in fretta, la ‘porta’ dell’”Oregon Project” (dopo la squalifica di quattro anni per doping del coach Alberto Salazar) per la multinazionale del “Just do it” si spalanca il ‘portone’ di una prestazione annunciata e fantascientifica. 

Eliud, novello Filippide dai calzari al carbonio – absit iniuria verbis – ha corso la sua prova a Vienna, dentro il Prater, nel tempo di 1:59:40, seguendo il raggio laser di un auto elettrica, ‘lepre meccanica’ regolare al millesimo, e con trentacinque ‘lepri umane’, e sei riserve – fior di atleti blasonati e celebrati, provenienti da ogni dove – a scortarlo dettando il ritmo di un copione ben noto. 

Ci aveva provato già due anni fa, a Monza, Eliud. Ma allora rimase ‘sopra’ di ventisei secondi. Migliora, quindi, di quarantasei secondi il proprio primato non omologabile. 

Già, non omologabile, perché le lepri, umane e non, i rifornimenti in corsa, il percorso di gara (quattro giri da 9,6 chilometri, più un pezzetto) ne fanno un risultato non ascrivibile nell’elenco dei record mondiali della IAAF, oggi World Athletics

Di che cosa stiamo parlando, quindi? Di un risultato eccezionale, sicuramente. Qualcosa che, comunque, Eliud aveva già dimostrato di valere, quando corse la distanza l’anno scorso a Berlino in 2:01:39, senza ‘effetti speciali’, ma certamente ‘memore’ dell’esperienza di Monza. 

Saltando a pie’ pari il livoroso vociare di chi associa, in modo malizioso, il risultato monstre al supporto di un super sponsor ciclistico e di una multinazionale sportiva – anch’essa sponsor, ma di un progetto sportivo recentemente chiuso per doping – da allenatore col pallino dell’educazione rifletto su due aspetti di questa vicenda significativa e spettacolare. 

C’è la questione tecnica. Quanto valgono i risultati della ricerca scientifica applicata ai progetti che hanno permesso, in due anni, di arrivare al successo di Vienna? Che ricadute avranno sul modo di allenare gli specialisti dell’endurance, podistico e non, professionisti e non? Potranno beneficiarne anche i ‘comuni mortali’, al di fuori dello sport? 

C’è anche la questione socio-pedagogica. Il tripudio mediatico scatenato dal successo sportivo e commerciale nella kermesse viennese avvicinerà alla disciplina un numero ingente di persone; adulti e giovanissimi. La dimensione spettacolare di un risultato sportivo di questo tipo, le dichiarazioni del campione nel post gara (“Volevo ispirare tante persone, nell'idea di spingersi oltre i limiti umani, ci ho provato tante volte e questa volta ci sono riuscito”) vanno trattate con cura, soprattutto in ambito educativo, quando si ha a che fare con i più giovani. Insegnare anche il “not everything is possible” credo non sia un’idea peregrina, ma di assoluto buonsenso. 

Guy Debord, filosofo, sociologo e scrittore francese, nel 1967 pubblicò “La Société du Spectacle”. “Lo spettacolo si presenta come un'enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che questo, «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare»”, scriveva Debord. Ed io mi fermo a pensare... 


giovedì 10 ottobre 2019

La scelta più difficile

Giorgio e Tania Cagnotto - foto di oasport.it

Genitori che allenano i figli, tema quanto mai ‘scivoloso’; un argomento che pone in evidenza la complessità di un doppio ruolo: quello appunto del genitore e quello del tecnico (che è comunque un educatore). 

La storia dello sport, quella italiana e quella internazionale tout court, offre una miriade di narrazioni suggestive, relative a vicende di padri – o anche madri – che allenano i propri figlioli. Storie talvolta tormentate, di pressioni psicologiche soverchie e di successi che entrano nel mito, come l’esperienza di Andre Agassi, raccontata da lui stesso nel best seller “Open”. 

Verrebbe da dire: almeno Agassi si è realizzato come campione. Ma di Andre Agassi ce n’è uno. 

Non si può escludere che esistano anche binomi genitore-allenatore/figlio-atleta vincenti, sia sul piano dei risultati sportivi che su quello più difficile dell’armonia educativa finalizzata alla crescita della persona. È il caso di Giorgio e Tania Cagnotto, dove il primo, papà di Tania e secondo miglior tuffatore italiano di ogni tempo, ha sempre saputo contemperare in modo perfetto il ruolo di tecnico e quello genitoriale. Ma, anche qui, si potrebbe dire che di Giorgio Cagnotto ce n’è uno. 

In questa sede, però, non voglio scrivere se sia più o meno opportuno essere allenatori dei propri figli. Piuttosto vorrei ragionare sulla necessità di operare una scelta, difficile, da parte del genitore-allenatore, ove si riconoscano i propri limiti – di tipo emotivo-psicologico oppure meramente tecnici – nella relazione con il figlio/a-atleta dal talento limpido. 

In Italia è assai frequente che l’allenatore, esperto o meno, si leghi visceralmente al giovane talento che è il prodotto del suo vivaio; tanto visceralmente da ‘imprigionarlo’ nella gabbia delle proprie ambizioni – talvolta sono vuoti esistenziali da colmare con i successi dei ragazzi che allena e che ha visto crescere. Rari sono i casi in cui avviene un passaggio di consegne, quando l’allenatore in difficoltà affida ad altri l'atleta che ha avviato allo sport, spesso a suon di iniziali risultati eclatanti.

Qualcuno potrebbe obiettare, giustamente, che così facendo i tecnici meno esperti non matureranno mai le competenze necessarie per il cosiddetto alto livello. È altrettanto vero che fare esperienza sulla pelle di giovani talenti, col rischio di perderli ancor prima che cominci la loro carriera sportiva (quella che conta, dai 20 anni in su, in molte discipline), è il ‘delitto’ più grande che possa essere perpetrato ai danni di un sistema sportivo già debole. 

Ma torniamo ai genitori che allenano i propri figli. Quando il rapporto tecnico-atleta si interrompe – e il genitore in questione è anche tecnico competente – che sorte avrà la relazione genitore-figlio? La possibile rottura di questo rapporto avrà sicure conseguenze nel prosieguo della carriera dell'atleta; immagino non positive.

Un progetto serio per l’alto livello nello sport dovrebbe fornire garanzie a tutela della persona, prima che del mero talento. Un sistema sportivo moderno dovrebbe garantire ai tecnici che allenano talenti – tecnici di base e non – un percorso formativo in LifeLong Learning, che preveda, da subito, il confronto e il dialogo costanti con i tecnici federali più esperti. Un dialogo con il settore tecnico nazionale sostanziato anche da incentivi economici che possano continuare, in una misura da definire, anche dopo un eventuale passaggio ad altro allenatore. Si potrebbero così evitare quei cambi bruschi, e dolorosi, di guida tecnica, spesso vissuti da alcuni allenatori come degli odiosissimi scippi, e assai di frequente forieri di successivi, anticipati declini. 

lunedì 7 ottobre 2019

Della forza salvifica del dubbio e del disincanto

(Il Prof. Dario D'Ottavio, foto di Carlo Costantin)
Archiviati pure i Mondiali di Atletica Leggera 2019. Il tempo corre velocissimo e già si guarda con trepidazione alle olimpiadi di Tokyo. Tokyo 2020.

L'ennesima storia di doping (il caso dell'head coach statunitense Alberto Salazar, squalificato per quattro anni, per "organizzazione e istigazione al doping" e traffico di testosterone, e allenatore della doppia medaglia d'oro di Doha, 10.000 e 1500, Sifan Hassan), fa emergere una volta di più un trito ma non peregrino interrogativo: ovvero se nello sport sia realmente oro tutto ciò che luccica.

Di campioni senza valore ne abbiamo conosciuti tanti. Qualcuno l'ha fatta franca (più d'uno). Qualcun altro è crepato. Sì, perché di doping si muore e di questo dovrebbero tener conto sia i tifosi sempre entusiasti dinanzi alle mirabolanti imprese del proprio idolo sportivo, sia quelli che vorrebbero legalizzare ogni pratica dopante.

Sia lode al dubbio, quindi. Ma non quello patologico, sia beninteso. Perché il dubbio e la controprova sono le fondamenta della ricerca scientifica.

E ogni qual volta rifletto sulla necessità di questo raffinatissimo esercizio intellettuale, nello sport come nella vita, non posso non pensare al mio carissimo amico Dario D'Ottavio

Dario è un uomo di Scienza - la maiuscola è d'obbligo - generoso come pochi (pochissimi in verità), decisivo nei momenti che contano; forte, del coraggio dei Forti.

Con Lui ho condiviso esperienze indimenticabili che mi hanno permesso di crescere, non solo professionalmente. Un Maestro. Gli devo davvero tanto, come gli deve tantissimo chi, a vario titolo, si è occupato o si occupa di lotta al doping. Provate a digitare il suo nome (e cognome) su Google...

Permettetemi di condividere un Suo post, di cinque anni fa, dove vengono definite alcune delle "pietre miliari" della conoscenza del fenomeno doping.

Leggete e, Vi prego, condividete ché, come dice Dario, l’attività di formazione e di informazione è uno degli elementi fondamentali per la lotta al doping.

DAL GRUPPO FACEBOOK "ANTIDOPING: FACCIAMO QUALCOSA, POST del 24 luglio 2014, di Dario D'Ottavio

Io penso che dopo quasi due anni dalla nascita di questo Gruppo (il gruppo Facebook “ANTIDOPING: FACCIAMO QUALCOSA”, nds) si possa affermare che siano state poste alcune pietre miliari per quanto riguarda la conoscenza del fenomeno doping:

1) Un atleta negativo ai controlli antidoping non è detto che possa considerarsi sicuramente “pulito”. Ciò deriva dal fatto che il “doping” potrebbe essere stato attuato in tempi lontani dalle competizioni (quindi lontano dai controlli post gara), che molte molecole non sono analiticamente determinabili e quindi sfuggono ai controlli (emivita bassissima, mancanza di metodi analitici, modifica strutturale delle molecole basali - il caso “Balco” insegna), che molte molecole/sostanze pur avendo un carattere ergogenico conclamato non siano inserite espressamente nell’elenco delle sostanze vietate (caffeina, teofillina, ormoni tiroidei, ipoglicemizzanti orali, bicarbonato di sodio, vasodilatatori, antinfiammatori, etc.), che molecole in fase sperimentale od integratori a base di erbe di cui non si conosca il principio attivo, siano in grado di aumentare la prestazione.

2) L’attuale sistema di “controlli”, pur essendo un ottimo deterrente, non è esaustivo per un completo controllo del fenomeno sia per l’impossibilità di estenderlo a tutti gli atleti, sia per quanto riportato al punto 1. L’introduzione dei controlli a “sorpresa”, lontano o pre-gara, l’introduzione del passaporto biologico (solo per il doping “ematico”) hanno dimostrato la necessità di intraprendere “strade” diverse che però necessitano di una “ricerca mirata” e di un sostegno economico non indifferente nonché di uno staff “tecnico” di elevate capacità e competenze.

3) Le modalità con cui si ottiene l’esenzione terapeutica sono scientificamente “criticabili” per cui è necessario correre ai ripari avvalendosi di “Strutture Istituzionali” qualificate ed idonee.

4) A tutela degli atleti si deve stabilire con certezza quali possano essere i limiti della produzione endogena delle sostanze dopanti e/o porre in essere tutte quelle ricerche e procedure che possano identificare e differenziare con certezza una assunzione involontaria da quella volontaria.

5) L’attività di formazione e di informazione, che è uno degli elementi fondamentali per la lotta al doping , vista la latitanza delle istituzioni, è demandata ad opera di “volontariato” senza uno specifico progetto/programma che, partendo “dall’alto”, riesca a raggiungere la base. Non è accettabile che “la Scuola” come elemento formativo ed educativo dei giovani non sia implicata in attività socio/formative quali l’educazione sanitaria, l’educazione civica, l’educazione all’attività fisica e il rispetto per l’ambiente (solo per citarne alcune).

6) Essendo il “doping” (come la farmaco/tossicodipendenza) un problema sanitario dovrebbe essere gestito dalle Istituzioni competenti (Ministero della Salute o strutture Sanitarie) evitando l’intervento e la gestione da parte del mondo dello Sport facendo così venir meno il criticabile sistema controllato/controllore.

Quanto sopra rappresentato, “la storia degli ultimi 30 anni”, ha inevitabilmente generato la cosiddetta “Cultura del sospetto”, pienamente condivisibile, e in quanto “sospetto” non vuol dire colpevolezza e sino a prova contraria (positività ufficiale ai controlli) un atleta è sempre “innocente”. “Innocente” sì, ma non si può affermare per quanto detto sopra, che sia un atleta certamente “pulito”. Purtroppo questa è la triste realtà ed è la conseguenza di una sconsiderata azione da parte degli organi di controllo negli anni storici in cui, per svariati motivi, la rincorsa alla farmacia proibita era l’attività prioritaria per l’affermazione, attraverso i risultati nello Sport, dell’efficacia del proprio modello politico.

È ora di rimboccarci le maniche e, nel nostro piccolo, penso che la nostra parte la stiamo facendo. Spiace constatare che alcuni interventi “cozzino” con la “filosofia” sopra descritta ma, sia ben chiaro, l’appartenenza ad un Gruppo implica la condivisione delle finalità e dei principi del Gruppo stesso. Se non si è d’accordo, non ci si iscrive o si lascia. Non è un limite alla democrazia, assolutamente, ciascuno è libero di esprimere le proprie opinioni e di confrontarsi, ma su tematiche “coerenti” e senza dar adito a sterili polemiche che comportino dispendio di tempo e di energie.

È possibile che nel Gruppo ci siano degli iscritti che “monitorizzino” o che non condividano questi principi, lorsignori (se ce ne sono), comunque, sappiano sin d’ora che non c’è spazio per operazioni di disturbo che possano intralciare il nostro percorso.

sabato 28 settembre 2019

Il deserto dentro

(Andy Lyons/Getty Images for IAAF)

Doha, Mondiali di Atletica Leggera 2019. Mondiali sfigati, mi viene da dire; e ne avrei ben donde: due 'miei' atleti convocati in Qatar hanno dovuto dare forfait per motivi - diversi - di salute. Mondiali sfigati per i miei atleti e per me, quindi. Ma non solo.

Non sono uso ad invocare la malasorte quando le cose non girano per il verso giusto. Questi mondiali di atletica sono sfigati perché marcano, incontrovertibilmente, la differenza tra gli "sfigati" (in questo caso val bene l'accezione anglosassone del termine "sfigato" come perdente, "loser"), ovvero quelli che stanno fuori dallo stadio (maratoneti e marciatori) e gli altri.

Gli altri sono quelli che corrono veloce, saltano, lanciano o girano in tondo in pista correndo molto meno degli "sfigati". Gli altri hanno lo stadio con l'aria condizionata - pare lambisca solo le caviglie degli atleti - ma poco pubblico ad incoraggiarli.

Gli "sfigati" si lessano nell'indifferenza che li circonda. 

Perché i mondiali di atletica a Doha? Per i "piccioli", dicono un po' tutti. I soldi, come diceva mia nonna, mandano l'acqua all'insù; d'accordo. Ma l'Atletica muore; o, almeno, così muore, definitivamente, la coralità delle sue leggendarie discipline.

Oggi è presto per dire che di questi mondiali ricorderemo giusto qualche 'lampo' ipertrofico che taglia la pista davanti a tutti; credo però di non essere troppo distante dalla realtà.
Ottobre, tempo di foglie che cadono, qui in Italia; e di maratoneti che cadono, lì in Qatar.

"Spendi spandi effendi", cantava Rino Gaetano... Aridatece Primo Nebiolo! (Che mi tocca di'...).

martedì 27 agosto 2019

In medio stat virtus

D’inverno, molti anni fa, a Pescara il venerdì pomeriggio c’era il ‘medio’.
Per chi non è avvezzo al ‘lessico famigliare’ dei mezzofondisti “anni ‘80”, il ‘medio’ era la pratica crudele e necessaria di un mezzo di allenamento spesso ‘tirato alla morte’ (altro che ‘appesantire’ il ritmo gara di 15-20 sec/km!), su distanze che oscillavano tra i 10 e i 14 chilometri. 

Il ‘medio’ si correva al parco (al d’Avalos o in ‘Pinetina’) da novembre a gennaio, e su strada da febbraio in poi. 

Preferivo quello ‘stradale’ ché il cross mi stava proprio sul piloro. (Devo però dire che più di una volta, tra il 1986 e il 1987, corsi 16 chilometri nella gloriosa ‘Pinetina’ a circa 3’20”/km, da solo, ‘volando’ tra radici e curve a gomito per una ventina di giri). 

I ‘medi’ del venerdì pomeriggio, in alcune occasioni, avrebbero fatto la felicità di più d’un organizzatore di gare podistiche locali. Di frequente, infatti, a scannarsi letteralmente si era in dodici, quindici. Il più scarso prendeva 3-4 minuti dai primi, pur ‘viaggiando’ a 3’30”/km… Mancava solo il pettorale di gara. 

Altre volte il ‘medio’ era questione per pochi intimi. Due, tre ‘carbonari’ al massimo. 

A vent’anni ero molto bravo a ficcarmi nei guai. Avevo un talento speciale per massacrarmi da solo scegliendo ‘compagni di viaggio’ decisamente fuori dalla mia portata. Incoscienza e presunzione sovente vanno a braccetto. 

Un venerdì di febbraio 1986 invitai Luciano Carchesio a correre un ‘medio’ con me. E sapevo bene di che morte sarei morto. Per migliorare, solevo ripetermi, bisogna essere armati di un misurato, ma deciso masochismo. 

Il ‘medio’programmato in quell’umido venerdì di febbraio era lungo 12 chilometri. Teatro della pseudo-tenzone la riviera nord di Pescara; partenza dallo stabilimento “Delfino Verde”, giro di boa al sottopasso di Montesilvano (oggi zona “Porto Allegro”) e ritorno. 

Due parole due su Luciano Carchesio: uno dei più grandi talenti del mezzofondo nazionale; campione italiano dei 3000 siepi nel 1982, davanti a Francesco Panetta. Luciano Carchesio, uno che chiudeva in 37”-38” gli ultimi 300m di un 3000 ‘galoppato’ sul filo degli 8 minuti; un mezzofondista che si allenava poco e che correva la mezza maratona in 1h04’02”. Stop. 

Quel venerdì di febbraio del 1986 facemmo un breve riscaldamento. Giusto 3 km partendo subito a 3:40/km e chiudendo a 3:20. Qualche allungo di un centinaio di metri e via… 

Faceva freddo, eravamo in due, e Luciano aveva una gran voglia di chiudere subito la pratica. Partimmo a 3:12/km e tenemmo quel ritmo fino al 4° km. Il 5° km lo chiudemmo in 3:06. 

“Non vedi, Mario? Qui siamo in discesa… Guarda, le gambe girano da sole...”, mi fece Luciano. Ma la discesa non c’era. Il vento da nord invece, quello sì. 

Volli cedere alle sue suggestioni. E lo seguii per altri 4 km, tutti corsi sul filo dei 3:02-3:03 al km. 

Poi si rese conto della fatica che stavo facendo. Rallentammo nei due km che seguirono (il 10° e l’11°). 6:24 quel 2000m. Mancava un chilometro. Chiusi gli occhi e cercai di seguire Luciano. Lui fece 2:38. Io 2:47. 

Quel giorno venni promosso: da “tapascione” a “tapascione di lusso”. Compresi pure che per andar più forte devi necessariamente seguire uno più forte. 

Due mesi dopo – era l’aprile del 1986 – chiusi i 12 km del mio primo Vivicittà in 36:11.

lunedì 19 agosto 2019

Più movimento, meno 'effetti speciali'


Basterebbe il buon senso per capire che iscrivere i propri figlioli a questo o a quel corso di “avviamento allo sport”, per un’oretta di ‘attività motoria’, due-tre volte per settimana, non sia la panacea per risolvere i loro problemi derivanti da stili di vita non compatibili con la salute. 

Figuriamoci se tali interventi, seppur lodevoli, riescano, taumaturgicamente, a produrre campioni nello sport. 

Se da un lato crescono di numero gli ultraquarantenni che si dedicano ad attività sportive ‘coreograficamente’ sempre più estreme – spesso ridotti a gadget umani collegati a tutte le piattaforme esistenti di training analysis sportivo – dall’altro i loro figlioli si muovono sempre meno e mostrano i segni evidenti e devastanti di abitudini che sarà molto difficile cambiare nel breve-medio periodo. 

Non tutte le associazioni sportive, però, lavorano allo stesso modo. 

Da educatore, e da direttore tecnico di un'associazione sportiva dilettantistica (ma sì, diciamo anche il nome: https://www.facebook.com/passo.logico/), ritengo che sia prioritario porre attenzione sull’utilizzo del tempo nella seduta di allenamento. Da mie osservazioni ho potuto riscontrare che nel rapporto tra attività e pause c’è una preponderanza imbarazzante di queste (non si va mai al di sotto del 70%) contro un esercizio che può addirittura ridursi all’ 8-10% della seduta stessa. 

Si può perciò assistere ad un paradosso: bambini che non frequentano corsi di “avviamento allo sport”, ma che si dedicano in modo significativo a giochi spontanei di movimento, possono manifestare uno sviluppo delle capacità motorie maggiore di quello dei bambini frequentanti. 

Take home messages.
È necessario che gli istruttori preparino in modo puntuale le loro lezioni, al fine di azzerare i tempi morti; essi dovranno ridurre all’essenziale il tempo della parola aumentando notevolmente quello dell’esempio concreto, della dimostrazione pratica; il numero dei bambini da seguire sarà adeguato agli spazi e alle attività da eseguire; la scelta degli esercizi e delle modalità esecutive degli stessi sarà finalizzata al coinvolgimento simultaneo del numero maggiore possibile di bambini; preferire il ‘recupero attivo’ alla pausa assoluta, riducendo quest’ultima al minimo indispensabile.

giovedì 15 agosto 2019

Cambiare il cambiamento - parte seconda


L'atleta è quindi al centro di un sistema virtuoso di curiosità logicamente orientate al risultato. Intelligenze multiple al 'servizio' dell'Atleta.

La descrizione dell'obiettivo del PROGETTO 92 recitava così:


"Il “Progetto 92” (P92) costituisce l’articolazione di una serie di iniziative che si propongono di affiancare la preparazione atletica al momento effettuata da Giovanni de Benedictis (da questo punto indicato come “atleta”) e di sostenerne, favorirne e condizionarne a buon fine tutti gli aspetti che finora non hanno trovato una compiuta e il più possibile scientifica definizione. 

La fig. 2 mostra lo schema a blocchi che descrive il procedimento operativo nelle sue componenti principali. 

La fig. 3 illustra il quadro di riferimento che si pone come obiettivo della totale esplicitazione dell’intervento.





La denominazione stessa del progetto riferisce la scadenza temporale alla quale le attività sono orientate ed individua il termine entro il quale esse si propongono di agire. 

Ognuno dei supporti mostrati nella figura 3 può essere descritto in maggior dettaglio...".

Il PROGETTO 92 mostra certamente molte 'ingenuità' legate al momento storico in cui fu realizzato (penso alle strategie di comunicazione e al ruolo che hanno i social network oggi), ma ritengo  che possa comunque rappresentare un esempio di buone pratiche permeate da un approccio scientifico forte ed etico.

"La necessità di disporre di attrezzature e competenze specialistiche orientate a tutti i settori di intervento della medicina dello sport comportano la necessità di instaurare uno stretto rapporto di collaborazione con uno o più consulenti in Medicina dello Sport e possibilmente con strutture universitarie e di ricerca italiane ed estere. 
In particolare saranno definiti i protocolli di ricerca che accompagneranno l’atleta nell’attività di allenamento e, per quanto possibile, nelle competizioni".

Già, la ricerca. Investire in ricerca piuttosto che su vagonate di followers...

sabato 10 agosto 2019

Cambiare il cambiamento - parte prima

(Il team del Progetto 92)
Viviamo un tempo strano, fatto di frequenti slanci puerili e privo di memoria buona, dove la parola "cambiamento" rotea minacciosa e inquietante, tagliente, a due dita dal collo sottile del nostro povero futuro.

Anche lo sport subisce gli effetti evidenti di questa infelice temperie culturale, morale; politica. Anche nello sport, in generale, e nell'atletica leggera in particolare, incombe il "cambiamento", invocato quadriennalmente alla vigilia delle olimpiadi.

Se è vero che il settore tecnico della FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera, occorre specificarlo ché siamo rimasti davvero in pochi a saperlo) è la spina dorsale di questo ingarbugliato e anemico sistema sportivo nazionale, allora è necessario ripartire da esso.

Voglio ricordare a me stesso e ai viandanti del blog che ben trent'anni fa - correva l'anno 1989 - a Pescara realizzammo un progetto che permise a mio fratello Giovanni l'ottenimento del bronzo olimpico nella 20 km di marcia alle olimpiadi di Barcellona, nel 1992. Quel progetto, seppur datato, conserva ancora, a mio giudizio, spunti notevoli per riflettere, ripensare l'attuale organizzazione del settore tecnico federale, e il suo "modus operandi", tout court.

Scriveva l'amico Valerio Di Vincenzo, dieci anni fa - era il 2009, anno dei Giochi del Mediterraneo a Pescara - a proposito del Progetto 92 (questa la dizione originale del titolo di quella magnifica esperienza):

"A cominciare dal 1989 Mario ed io abbiamo iniziato a studiare strategie per vincere le Olimpiadi di Barcellona. Io, con le conoscenze maturate da ricercatore universitario in medicina, proponevo i metodi e gli strumenti. Lui li traduceva in protocolli scientifici di allenamento, in fitte tabelle di dati funzionali e rilievi sul campo che venivano graficizzati in forme primordiali di pagine elettroniche, allo scopo di valutare gli effetti, nel tempo, delle fasi di lavoro. Giovanni ci metteva il fisico ed un carattere che esprimevano la sua energia sovrumana. Claudio interpretava olisticamente il modello biomedico, assecondava i flussi energetici e la crescita delle prestazioni atletiche di Giovanni, leniva i dolori. Daniela appianava i conflitti e minava le basi di quella sindrome che - tra me e me – ho chiamato la “paura di vincere” ( quella che fino a quei tempi aveva attanagliato i primati mondiali che erano nelle gambe di Giovanni). Mamma Angela e papà Nino ci avevano adottati come parte integrante della famiglia. Tutto ciò cresceva giorno dopo giorno, confortato da risultati crescenti. Era qualcosa che non era mai esistito prima in nessuno di noi presi singolarmente, eppure si avverò quando decidemmo di lavorare insieme.
Ciò che potrebbe stupire oggi è che Giovanni, in preparazione della sua seconda olimpiade, accettò di affidarsi a questa strana combriccola, priva di alcuna precedente esperienza del genere, osteggiata dall’establishment, ma dotata di idee capaci di fare la differenza. Erano i tempi in cui un bel numero di medaglie olimpiche e maglie rosa erano prodotte in Italia dalle parti di Ferrara, ma Giovanni preferiva frequentare la riviera pescarese, le Dolomiti, gli altopiani messicani, a costo di litigare con taluni “santoni” della Federazione e, in fin dei conti, perfino di farsi superare in silenzio da gente che il buon sangue se lo faceva venire con mezzi diversi dal buon vino e dall’armonia tra mente e corpo.
Il fatto è che, parlando e riparlando con Mario, ho capito quanto le personalità come quella di Giovanni e come la sua sanno essere carismatiche anche continuando ad essere vere. Questo, secondo me, deriva dalla capacità di essere sempre coerenti con sé stessi e di affermare coi fatti valori inalienabili".

Nel Progetto 92 emergeva in modo chiarissimo un assunto: 

"[...] L’Italia soffre in modo particolare di tutto ciò (l'arretratezza delle motivazioni scientifiche, tecnologiche ed imprenditoriali che legano gli sponsor ai testimonials sportivi, nds) a causa di una tradizione che individua nel personaggio emergente un puro frutto della Provvidenza e lascia quindi più di altre Nazioni che i propri rappresentanti sportivi costituiscano nella maggioranza una raffinatezza artigianale piuttosto che la punta estrema di un dominio razionale del corpo e della mente sostenuto da adeguate energie intellettuali, materiali e tecnologiche. 

Questo ultimo elemento è invece il seme dal quale si vuole far scaturire l’iniziativa descritta nel presente progetto. Esso poggia sulla convinzione che nelle decisioni che governano la preparazione di un atleta a livelli superiori, sia possibile definire un metalinguaggio che descrive ciò che attualmente si nasconde sotto i paraventi dell’occasionalità, della genialità, della fatalità e dell’approccio empirico se non alchimistico. 

Tutto ciò indica che l’obiettivo del “Progetto 92” non può essere inteso tout court con l’ottenimento della vittoria di una gara olimpica, nella fattispecie la 20 km di marcia delle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, chè dà il titolo al presente programma, quanto piuttosto la costruzione di una coscienza, di una metodologia e di una pratica che mettono alla prova un gruppo di esperti, di appassionati e un atleta d’eccellenza innanzi tutto di fronte a se stessi ed al concetto di ottimizzare il proprio operato confrontandolo a quelli di riferimento. 

Si ritiene che una volta definito in questi termini e sperimentato sul campo, l’insieme di interventi che circoscrive questa particolare iniziativa possa essere descritto e possa quindi divenire patrimonio dello sport moderno e come tale, negli ideali decoubertiani, del libero scambio di interesse, del sano agonismo, del gioco maturo e consapevole, del vivere civile.

[...] Nella fig. 1 sono riportati i fattori che determinano l’ottimizzazione del rendimento di una prestazione: la cura, la selezione, la crescita di ognuno di questi fattori, associabili al lavoro multidisciplinare e cooperativo di un gruppo omogeneo sono le risorse che consentono di individuare nella prestazione non più l’effetto di qualcosa di imponderabile sul quale scommettere, ma piuttosto la conseguenza di una sapiente miscela di ingredienti. 

Il risultato dipende ancora da fattori casuali, ma definendo meglio il sistema di riferimento, lascia a questi ultimi uno spazio misurabile di sviluppo. 

Non è un caso che uno schema mentale del tipo riferito in fig. 1 è stato applicato da sempre nella storia dell’uomo nell’"arte di fare la guerra”. Più piacevolmente nella espressione di principi di pacifica competizione, di confronto fisico ed intellettuale a livelli internazionali, di affermazione di una specificità culturale, di sostegno alla diffusione di una professionalità fondata su criteri scientifici si incontrano le motivazioni dello sponsor di questa iniziativa e del sottocitato comitato tecnico e si giustifica l’inusuale supporto a scopi promozionali di un concetto piuttosto che di un risultato".

- fine prima parte -

venerdì 9 agosto 2019

Ariècchime!


"Ariècchime!", si direbbe a Roma. Dopo circa tre anni di 'buio' si riaccendono le luci di casa. Non chiedetemi perché abbia silenziato "Opinioni Aerobiche" ché, in verità, non lo so nemmeno io.
C'era sicuramente bisogno di una pausa. Avevo bisogno di una pausa.
Ora però Vi toccherà sopportarmi, di nuovo. Armatevi di pazienza e, sotto con i commenti, se Vi va.