Una foto in bianco e nero. Un sedicenne magrissimo è ritratto
frontalmente, a figura intera, mentre chiude la sua fatica al
secondo posto, dopo aver tirato la gara per quasi tutti i quattro
chilometri di un duro percorso sterrato alla periferia di Avezzano.
Erano i campionati regionali abruzzesi di corsa campestre. Era un
giorno di marzo del 1982 e quel sedicenne ero io.
Chissà quante volte,
negli anni a seguire, sono andato con la memoria a quella
competizione che segnava il mio rientro alle corse, dopo uno stop
abbastanza lungo – credo un bel mesetto – per effetto di un
infortunio da sovraccarico funzionale alla bandelletta ileo-tibiale
sinistra.
Correvo tanto in quegli
anni. Alla fine del 1981 ero capace di ‘trottare’ per oltre due
ore e mezza, senza mai fermarmi, su e giù per i colli di Pescara.
Sui 10 km andavo senza troppa fatica sotto i 3:15/km e puntavo
decisamente al podio dei Campionati Italiani di Maratonina Allievi
del 1982 (primi di luglio), sulla distanza dei 12 km. Consapevole di
avere avversari del calibro di Antonino Rapisarda (8:13 sui 3000 a 16
anni e 29:56 sui 10.000 in pista a 17!!!) e del compianto Walter
Merlo (8:12 sui 3000 e 3:50 sui 1500 a 17 anni), lavorai molto
duramente per un obiettivo forse non ancora alla mia portata. La
bandelletta ileo-tibiale sinistra ‘cedette’ perciò ai primi di
gennaio del 1982 ed io andai nel pallone.
Torniamo a quella foto in
bianco e nero. Della magrezza si diceva. Essa aveva qualcosa di
metafisico, di ascetico e, insieme, di grottesco, tanto da valermi
allora i nomignoli di “de Benedistick” e “buco di culo coi
denti” (ahimè ne ho già scritto da qualche parte). Magrezza e
tensione, con quei pugni serrati, i gomiti in fuori e le spalle
abbastanza alte e incordate. Gli occhi, che guardavano oltre il
traguardo, ormai lì a pochi passi, erano due tagli scuri su un volto
leggero e sofferente. Occhi che lasciavano trasparire l'ansia per
l'attesa di una competizione di cui non conoscevo ancora il nome
(c'era sempre un'altra gara da fare) ma che sapevo sarebbe arrivata,
col suo peso, soverchio, di aspettative (altrui) da soddisfare.
Quella foto del 1982 in
realtà non è solo un ingiallito, ma ancora vivissimo, ricordo
personale; essa rappresenta il significante assoluto della pressione
psicologica, spesso eccessiva, che un giovane è 'costretto' (le
virgolette sono necessarie) a sopportare durante il suo percorso di
formazione sportiva.
E sarà per una di quelle
coincidenze, chiamate da Jung sincronicità, che la foto del 1982
salta fuori all'improvviso da un 'cassetto' digitale, proprio nei
giorni in cui mi trovo ad assistere ad episodi di altre
esasperazioni, sempre legate all'esperienza sportiva di giovani ateti
– alcuni giovanissimi, in verità.
C'è l'allenatore
emozionato e con la voce che trema, che al campo mi fa: “Qual è il
record (sic!) sul chilometro per la categoria Esordienti (11 anni,
nds)?”. Ed io a spiegargli che, tutt'al più, possiamo parlare di
migliore prestazione e che, comunque, bisogna stare attenti ad
enfatizzare 'numeri' di quel tipo, soprattutto in presenza dei
ragazzini stessi.
C'è un altro tecnico che
scrive nel proprio curriculum sportivo,tra le note degli atleti da
lui seguiti: “Ha allenato XY, campione italiano dei Giochi della Gioventù”.
Ci sono infine altri adulti (allenatore, genitori, ecc.) tutti presi da una 'missione' irrinunciabile: il raggiungimento di un minimo di partecipazione (improbabile) ad un appuntamento internazionale.
La foto del 1982 racconta comunque una storia a lieto fine. Perché sull'agonismo, cieco e disumano, ha poi prevalso l'Educazione. Perché, vivaddio, ho avuto un'Educazione. Degli altri non so dire. E resto spaurito.