giovedì 9 ottobre 2008

Quando sognavo la canotta militare

Stavolta il post è un remembering. Rovistando tra i miei appunti e muovendomi tra racconti brevi mai pubblicati, bozze di racconti autobiografici, quasi subito "ripudiati", eccetera, ho trovato qualcosa che mi ha fatto tornare il sorriso. Lo dico subito, un giochetto letterario buono per una serata tra amici e forse neanche per quella. Peraltro un giochetto monco, perché ricordo doveva essere sviluppato e modellato nella forma di un racconto lungo. La cosa mi piacque all'inizio, ma poi, preso da altro, l'abbandonai in un "cassetto" digitale del mio hard disk. Oggi lo do in pasto alla curiosità di voi viandanti del Web, confidando nella vostra temperanza e benevolenza.
Prima di partire col racconto, scrivo due righe introduttive. Il testo è stato scritto circa tre anni fa. Stavo per compiere quarant'anni ed ero da poco tornato a correre con l'entusiasmo di un adolescente. In quei giorni la testa riandava spesso su immagini di un passato formidabile e bizzarro. Il mio passato di mezzofondista-marciatore.
Buona lettura.


Militare




Il 25 aprile ho rivisto il Ciampi circondato da divise. E le divise mi fanno tornare indietro di vent'anni e più. Perchè intorno ai vent'anni non solo si può capire meno di un ciufolo, ma si possono fare casini immensi. Altro che ciufoli.
Storie di abiti che fanno i monaci; di tute e canotte come divise; di carabinieri e finanzieri che corrono ma non sparano. Tutta la mia meglio gioventù.
Buona lettura. marius

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Fricativa postalveolare sorda. Merda di un appuntato capo. Tutto quello che mi rimane del mio militare, cioè due giorni di visita medico-psicofisico-attitudinale (tolgo l'attitudinale perché riformato al secondo giorno, e i test attitudinali mi sembra si facessero al terzo) sono quelle due esse strascinate, in divisa d'appuntato capo, carabiniere campano prossimo alla pensione e dalla weltanschauung dicotomica: ‘e scpine (leggasi spine, con la sc di scemo) da una parte e i sckarti (leggasi scarti, stessa sc) dall'altra. Ed io ero o sckarto. Ma procediamo con ordine.

Venticinque anni fa avevo quindici anni. Cioè oggi dovrei essere la somma di un cazzonetto adolescente ed un coglioncello buono per gli
happy hour in centro. Esaltante. A quindici anni facevo più chilometri a piedi di un keniano ipercinetico. Mio padre, che allora mi allenava, aveva le idee chiare in fatto di obiettivi atletici da raggiungere: io e mio fratello avremmo partecipato alle olimpiadi; anche più d'una. O magari soltanto io; oppure solo mio fratello. Il nome, contava il nome. DE BENEDICTIS prima o poi avrebbe dovuto significare qualcosa nella storia del mezzofondo e della marcia mondiale. Meglio prima che poi, cosicchè all'età di dodici anni (mio fratello ne aveva dieci, cinquanta chili di buon nome familiare in due) iniziai a sciropparmi qualcosa come quindici chilometri al giorno - domenica compresa -, roba da far venire un colpo al presidente di Telefono Azzurro. Anche perchè mio fratello spesso e volentieri in allenamento mi legnava e qualche volta faceva pure alcuni chilometri in più per sfottermi un tantino. Bastardo.
A tredici anni avevo la struttura di un aeroplanino di balsa e la resistenza di un varano dopato, tanto da meritarmi a scuola e nel quartiere gli appellativi di: DE BENEDISTICK, buco di culo coi denti,
vaffanculecurrenn', eccetera eccetera. E per l'autostima tutto ciò era una mano santa. Quando c'era il ballo della scopa, in una delle rare volte che potevo prendere parte alla agognatissima festicciola di compleanno della racchietta del palazzo (che si trasformava magicamente in una figa perchè a correr troppo si può diventare sessualmente daltonici), stavo bene attento a lasciar filtrare un po' di luce in sala. Essere scambiati per la scopa non era cosa tanto improbabile.
Tutto ciò che indossavo, anche al di fuori dell'attività sportiva, dall'orologio digitale (giapponese, a cristalli liquidi, uno dei primissimi, col cronometro al centesimo di secondo), alle calzature, ricordava in modo ineludibile il mio cavolo di destino aerobico. Portavo la tuta più ore dell'Uomo Ragno e, al pari di Superman, quando vestivo in borghese non mi riconosceva un cazzo di nessuno. Cosicché preferivo stare in tuta perchè l'identità è l'identità.
Quando mi diedero la tuta sociale, d'un giallo canarino bordato da ampie fasce blu elettrico, sembravo davvero un supereroe della Marvel Comics. Vidi bene di inaugurarla alla festa di compleanno del mio dirimpettaio (dodici anni credo). Non so se mi presero per scemo o cosa, ma io me la tiravo che sembravo Berlusca il pomeriggio del 13 maggio 2001 (va bene pure l'11 aprile 2006). Scivolavo tra ragazzini coi jeans roy rogers e t-shirts fruit of the loom, mentre io, incurante del caldo torrido della sala gremitissima di sguazzoncelli sudati, appiccicati e limonanti, facevo piroette al ritmo della Dee D. Jackson, quella di Meteor Man. Mi muovevo come Jeff Bridges in Starman di John Carpenter. Solo un po' più impacciato.
La tuta, la tuta. Finché non arrivò quella maledetta canotta gialloverde finanza.
Tutta colpa d'un coglione mio coetaneo, iperpatito di gadgets sportivi all'ultima moda. Uno che quando correva manco sudava per non sporcare il completino Fila. Ricordo che ad un campionato di corsa campestre, corso dentro un letamaio piemontese, arrivò al traguardo con addosso qualche raro schizzetto di fango, che lo faceva addirittura più bello; tutt'intorno c'erano mamme ed allenatori che stentavano a riconoscere figli ed atleti ridotti a colate di fango con le zampe.
F.N., questo il suo nome, un giorno (in quel frangente avevamo entrambi sedici anni) non si sa come, riuscì a far scivolare una canotta del gruppo sportivo della Finanza (le mitiche Fiamme Gialle) dentro la sua sacca. Insomma, la rubò negli spogliatoi dello stadio della Stella Polare di Ostia, a conclusione di un Campionato Italiano Allievi di maratonina andato male. O meglio, a lui era andato male, io ero arrivato sesto con un rimonta finale che se c'era ancora un chilometro avrei beccato pure il terzo. Quel giorno ad Ostia faceva un caldo della madonna. Luglio flagrava, per dirla col poeta Kavafis, ed io ero andato in gita premio per sostenere il buon F.N. che, per l'occasione, avrebbe dovuto fare sfragelli. Era lui la star del team in cui allora militavo. Invece saltò come tanti altri dopo appena qualche chilometro. Lesso, che se non avesse avuto completino e scarpette lo avrebbero fermato per vagabondaggio.
Le scuse che era capace di accampare il buon F.N. ogni volta che toppava erano pari per fantasia soltanto alle cazzate che sparava quando voleva esaltare le sue migliori (e comunque mediocri) performance. Per la cagata di Ostia tirò fuori dal cilindro il dramma delle lenti a contatto. A sentir lui ne aveva persa una durante il terzo chilometro. Si dovette quindi fermare a cercarla, carponi. Passò al setaccio metri e metri quadri di asfalto senza cavarne nulla finchè non la ritrovò grazie ai Ray Ban di un amico di Teramo che passava per caso da quelle parti. I Ray Ban, sempre secondo F.N., avrebbero consentito l'individuazione della lente fantasma un po' come il metal detector per le armi negli aeroporti. Lo avrei mandato volentieri a fanculo per l'enormità della boiata. Lui però non me ne diede il tempo aggiungendo che una volta ritrovata la lente si era messo alla ricerca di una fontana per sciacquarla. Feci un rapido calcolo a mente: tutta l'operazione del recupero con risciacquo non poteva essere durata meno di quattro minuti. Io gliene avevo smollati due e il primo classificato mi aveva staccato di circa un minuto. Senza quella sfiga F.N. avrebbe vinto con almeno un minuto sul secondo.
Vaffanculo ovunque tu sia, F.N..
Affanculo anche perché tornò con quella diavolo di canotta gialloverde; FIAMME GIALLE c'aveva sul petto. E se lui che era arrivato due minuti dopo di me poteva giocare a fare il finanziere, io come minimo potevo avere la divisa dei carabinieri, tuta e borsa comprese.
Credo che iniziarono così i miei ingenui e strampalati sogni di gloria: quali guerre e medaglie al valore! Io volevo soltanto correre, allenarmi e andare forte. Da mane a sera. Del resto era ciò che già facevo, e da un pezzo, per le salite di Pescara Colli, zona cimitero. Ma sapevo pure che i carabinieri, così come i finanzieri e i poliziotti, le loro amministrazioni intendo, pagavano uno stipendio per farlo e garantivano pure un posto tranquillo (il mito del posto statale!) una volta smessi i panni dell’atleta.
Ma a sedici anni o giù di lì è alquanto improbabile immaginarsi ex-qualcuno o ex-qualcosa, tantomeno vedersi nei panni naftalinici di un pensionato maratoneta; un sedicenne che corre come un varano dopato immagina di sgambettare tutta la vita e basta. Diciamo che farlo con la “divisa” sgargiante e traforata mi esaltava un mondo, e mi bastava. Eccome se mi bastava.
I sogni però, spesso, vanno in aceto.




7 commenti:

Anonimo ha detto...

complimenti per il racconto mario!

mi sono rivisto un pò in quello che hai scritto, avendo vissuto un'esperienza simile.. ho corso in bici dai 13 ai 21 anni e davvero oltre ai kilometri ho "macinato" anche un sacco di sogni..
a quell'età davvero i "sogni di gloria" hanno una forza mostruosa che ti spinge..
ho smesso con il ciclismo (ora corro ma in maniera molto molto amatoriale....) e non ho rimpiati ma il ricordo del misto di sensazioni e aspettative di allora è ancora vivissimo.

simone

Anonimo ha detto...

Beati voi!!!! .... Che almeno ci avete provato. Il mio rammarico è più grande!!!! ahime!!!

Marius ha detto...

Ciao Simone,

grazie per i complimenti, sei troppo buono. Il mio blog ha un taglio narrativo. Ho scelto questa modalità comunicativa per contemperare due passioni: quella letteraria e quella sportiva. A volte prevale l'una, a volte l'altra. Come ho scritto più volte, per la riflessione scientifica, su argomenti tecnici e/o inerenti le problematiche della fisiologia dello sport, seguo ancora la forma tradizionale della pubblicazione (cartacea e digitale), del convegno, meet up, eccetera.
Su questo blog prevale il "mito" (nell'accezione greca del termine). Si può crescere nel racconto, come ci dice la psicologia culturale, perché questo è esercizio millenario di ricerca e realizzazione del Senso, di condivisione di valori. La narrazione perciò struttura la nostra esperienza e ne permette il ricordo.

Quindi buona lettura.

un saluto. mario

Anonimo ha detto...

Dunque, "mitico Marioò"
(va letta con l'enfasi giusta, quasi gridata...)

beh, io a te militare, in pensione o no, armato o no, proprio non ti ci vedo, e non ti ci vedi neppure tu.

E sinceramente non ho mai apprezzato, in nessuno degli altri sport in cui cio' avviene, la "militarizzazione" dell'atleta.

Ne comprendo ovviamente perfettamente i motivi che ne sono alla base, assicurare al talento una tranquillita' per potergli permettere di esprimerlo tutto, il talento, ma credo che qui se ne sia abusato, creando il solito italico guazzabuglio.

Sul punto ho conoscenze indirette, riferite, ma piu' che attendibili, di quello che significa(va) essere militari, sportivi e non, in altri paesi ed altri periodi; credetemi, ci e' andata bene a tutti, non stellettati per destino o convinzione ( ed io sono fra questi ultimi).

Coinvolgente il tuo racconto, caro mario, amarcord per tutti noi che da ragazzi abbiamo coltivato sogni di gloria, anche non sportiva.

Mi hai fatto perdere dieci preziosissimi munuti che avrei dovuto dedicare questa mattina alla convrsione delle anagrafiche ICi di una immobiliare Teramana di cui conosci bene uno dei soci.

mauro

(beh, per quanto attiene F.N, stai tranquillo, mentiva in ogni senso; con una lente sola si puo' correre benissimo, con sensazioni anche divertenti da "ubriachezza"; io le uso e lo so benissimo; e se te ne cade una, rimetterla e farci una mezza sopra e' una pazzia assoluta.)

Anonimo ha detto...

Bellissimo il racconto, che tocca una delle tematiche più avvincenti e discusse: il sogno.

Del resto, chi non ha avuto un sogno da bambino?
E come dice il Liga nazionale, “alcuni li hai sempre difesi, altri hai dovuto vederli finire”.

Io penso che non si riesca mai a smettere di sognare. Anche da adulti c'è sempre un obiettivo che ci poniamo e cerchiamo disperatamente di raggiungere
E più è grande l’obiettivo, maggiore è l’impegno profuso.
È questo il bello della vita: la voglia continua di migliorarsi e dare sempre di più, nel rispetto dei propri interessi e delle proprie passioni.

Grazie per la riflessione, Mario.

Saluti.
Sat

P.S.: Ho apprezzato tantissimi passaggi della narrazione, ma i miei preferiti sono stati indubbiamente il “vaffanculecurrenn” , il ricordo che indossavi la tuta più ore dell’Uomo Ragno, nonché il desiderio di difendere, in un perfetto stile pirandelliano degno di un Vitangelo Moscarda dei tempi moderni, la tua identità di atleta agli occhi dei coetanei...

Marius ha detto...

Vitangelo Moscarda... mamma mia! Sei troppo buono, al limite dell'agiografia. A giorni, sempre su questo blog, pubblicherò "Il paradosso del competitore", un mio scritto di qualche anno fa (sei per la precisione). Riscosse qualche consenso appena fu pubblicato e ancora oggi qualcuno mi scrive per chiedermi qualcosa a proposito della mia "infanzia" atletica. Lo "posterò", con una dovuta introduzione, a giorni.

ciao e ancora grazie.

mario

Anonimo ha detto...

Credo di averlo letto anch'io.
Forse lo avevi già postato in passato, ma ora non lo trovo più.
In effetti, se è quello che intendo io, si tratta di un episodio che fa riflettere e che ti ha visto protagonista di un'avventura sportiva davvero singolare. Con l'inconsapevole passante che avrebbe potuto credere che...

A presto.
Sat