Lo sapevo. Apri la porta a certi ricordi – non c’è rimozione che tenga, altroché – e giù, riparte la memoria a ripescare volti, situazioni, storie… Forse, un giorno, di questo intricatissimo archivio farò un saggio. Forse. O forse no. Certo è che di materiale ce n’è a iosa; “roba” per riflettere, per sorridere o ridere addirittura di gusto e schegge di vita sportiva da far impallidire anche il più navigato centralinista di “Telefono Azzurro”. Storie vere, sicuramente, di cui sono stato diretto testimone o protagonista. Storie di quasi trent'anni fa. Di quando il doping riguardava “gli altri”, “i marziani”; quelli d’oltre cortina. Di quando il sorso di tè dalla borraccia scatenava la maliziosa fantasia di intraprendenti genitori-allenatori. Piccole storie di provincia, frammenti di profondissima umanità di cui ho grande nostalgia. Lascio andare quindi la penna, per un “flusso di coscienza” dai colori dell’infanzia e della primissima adolescenza; fiume di emozioni fortissime, dolci e terribili; intrise d’una grave levità.
Non andava neanche a spinte, poverino. Ma si impegnava un mondo. Correva l’anno 1979 e con esso tutto il gruppo di giovanissimi mezzofondisti dello Stadio Adriatico. Tra questi c’era pure lui: il bambino con le orecchie a sventola. Seguito come un’ombra dal padre (che non ho mai capito quale mestiere facesse; il pomeriggio seguiva il figlio tra allenamenti e pettegolezzi post-training, la mattina incontrava gli amici al bar per parlare di gare e… allenamenti!) non riusciva mai a classificarsi nei primi dieci, neanche quando si era in otto (molte volte sbagliava strada).
Le battute al suo indirizzo, scontate come il rincaro della benzina, erano tutte di tipo “aerodinamico”.
– Le orecchie ti fanno da paravento! Ti devi operare – lo apostrofavamo con solerte cattiveria, almeno tre volte al giorno.
Ma lui non faceva una piega o almeno così credevamo. Lui era un “puro”. “Catechizzato” dal padre, era certo dello stato – ormai cronico – di tossicodipendenza in cui versavano tutti quelli che puntualmente lo precedevano nelle non competitive rionali. Praticamente quasi tutti i partecipanti. Giovanni, mio fratello, talento precocissimo, era il suo bersaglio preferito.
– Si fa la droga. Il padre ogni giorno gli dà un chilo di pappa reale. Secondo me muore – era il suo refrain. E qualcuno gli credeva pure.
Andava profetizzando strane metamorfosi che volevano Giovanni stecchito dopo l’ennesima brillante competizione, con le zampette all’insù, mutato definitivamente – come nel film “The Fly” di Cronenberg – in un’ape gigantesca.
Una volta mi vide masticare una tavoletta di destrosio (comunissimo glucosio). Mi chiese cosa fosse e a cosa servisse . Il padre era lì con lui, ovviamente. Con pazienza gli spiegai che serviva a recuperare un po’ le energie perdute in allenamento.
L’ultima immagine che ho del bambino con le orecchie a sventola è da film di serie C.
A due minuti dalla partenza del campionato regionale di corsa campestre, in pineta D’Avalos, il padre in preda al panico si sbracciava come un dannato per ritardare l’avvio della competizione.
Il bambino “tuonava” dalla vicina latrina ormai da un po’. Tre confezioni di Dextrosport in meno di venti minuti fanno rimpiangere l’olio di ricino.
Non andava neanche a spinte, poverino. Ma si impegnava un mondo. Correva l’anno 1979 e con esso tutto il gruppo di giovanissimi mezzofondisti dello Stadio Adriatico. Tra questi c’era pure lui: il bambino con le orecchie a sventola. Seguito come un’ombra dal padre (che non ho mai capito quale mestiere facesse; il pomeriggio seguiva il figlio tra allenamenti e pettegolezzi post-training, la mattina incontrava gli amici al bar per parlare di gare e… allenamenti!) non riusciva mai a classificarsi nei primi dieci, neanche quando si era in otto (molte volte sbagliava strada).
Le battute al suo indirizzo, scontate come il rincaro della benzina, erano tutte di tipo “aerodinamico”.
– Le orecchie ti fanno da paravento! Ti devi operare – lo apostrofavamo con solerte cattiveria, almeno tre volte al giorno.
Ma lui non faceva una piega o almeno così credevamo. Lui era un “puro”. “Catechizzato” dal padre, era certo dello stato – ormai cronico – di tossicodipendenza in cui versavano tutti quelli che puntualmente lo precedevano nelle non competitive rionali. Praticamente quasi tutti i partecipanti. Giovanni, mio fratello, talento precocissimo, era il suo bersaglio preferito.
– Si fa la droga. Il padre ogni giorno gli dà un chilo di pappa reale. Secondo me muore – era il suo refrain. E qualcuno gli credeva pure.
Andava profetizzando strane metamorfosi che volevano Giovanni stecchito dopo l’ennesima brillante competizione, con le zampette all’insù, mutato definitivamente – come nel film “The Fly” di Cronenberg – in un’ape gigantesca.
Una volta mi vide masticare una tavoletta di destrosio (comunissimo glucosio). Mi chiese cosa fosse e a cosa servisse . Il padre era lì con lui, ovviamente. Con pazienza gli spiegai che serviva a recuperare un po’ le energie perdute in allenamento.
L’ultima immagine che ho del bambino con le orecchie a sventola è da film di serie C.
A due minuti dalla partenza del campionato regionale di corsa campestre, in pineta D’Avalos, il padre in preda al panico si sbracciava come un dannato per ritardare l’avvio della competizione.
Il bambino “tuonava” dalla vicina latrina ormai da un po’. Tre confezioni di Dextrosport in meno di venti minuti fanno rimpiangere l’olio di ricino.
4 commenti:
Bella storia!
O meglio, una triste storia, come tante che spesso si vedono in giro.
Mi fa venire in mente tante persone e tanti casi del genere, e non solo nel mondo dell’atletica, ma anche in altri sport e nella normale quotidianità.
Quando giocavo a calcio, almeno la metà dei genitori credeva – naturalmente a torto e senza alcun fondamento di verità – che il figlio fosse un novello Maradona o un Roby Baggio in erba, predicandogli scioccamente un radioso avvenire nel calcio che conta.
A volte capita addirittura che le illusioni proseguano anche quando la ragione suggerirebbe di mettere da parte ogni speranza…
Premesso che è indubbiamente bellissimo che un genitore possa condividere con il figlio una certa passione e riesca a seguirlo ed assisterlo nel corso della sua crescita – per anni mio padre mi ha seguito passo passo nell’attività sportiva, oltre che, naturalmente, in quella scolastica – sarebbe sempre preferibile mantenere un minimo di imparzialità nelle valutazioni, per non far sorgere sciocche competizioni e non ingenerare sciagurate e rovinose ambizioni.
Come sempre finisco per perdermi in discorsi che non mi competono (il ruolo del pedagogo non fa proprio per me...). Ma la colpa è di Mario che ci stuzzica sempre con questioni interessanti e coinvolgenti.
Un saluto.
Sat
Personalmente ho provato tristezza nel leggere questo post, ma assolutamente senza alcun riferimento al mondo dello sport, avendo imparato nel tempo a non abusare delle generalizzazioni di pensiero su cui spesso si scivola, trattando argomenti come questo.
Spero il ragazzo si sia operato o abbia trovato un taglio di capelli ad hoc.
mauro
Un raccontino triste, senza nessuna velleità pedagogica. L'unica incontrovertibile verità è nella "crisi" intestinale da abuso di destrosio. Delle orecchie del bambino, negli anni successivi, non ho saputo nulla. Le avrà lasciate così com'erano. L'attore Fabio Testi docet...
un salutone. mario
Ok, ok, non ve la prendete!
A me ha fatto pensare a tante cose, alcune sono quelle dette, molte di più quelle non dette.
Non voglio assolutamente generalizzare, dico solo che mi è capitato di vedere casi di questo tipo o comunque simili.
Quanto alle orecchie, non sono certo un problema! Le aveva così anche il mitico ed ineguagliabile Marco Pantani, quindi...
Saluti.
Sat
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