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Vivicittà Pescara 1986 |
L’anno prima avevo provato a vincerlo, partendo come un assassino, davanti a tutti. Chi c’è c’è. “Guarda che il forestale non ti lascia mica andare. Quello c’ha sotto i 14’ sui 5000 e viene dai 1500”, provò a dirmi un amico il giorno prima di quella gara. Il monito stava a significare: se la butti giù dura dal primo metro quello ti sta incollato dietro; se la meni tattica ti secca lo stesso. Allora decisi di partire forte. Niente tatticismi. Se il forestale era più bravo del sottoscritto avrebbe comunque dovuto sudare per vincere.
Quel giorno si sudò tanto. Dal primo metro. La foto a sinistra mi ritrae davanti al gruppo dei primi, 600 metri dopo la partenza. (Se aguzzate bene la vista potete scorgere dietro il forestale, secondo, Camillo Campitelli l’immortale, un semicoperto e giovanissimo Marco Barbone – aveva sedici anni! – e al quarto posto il mitico Renato D’Amario). 2:50, 2:58, 2:59, 3:00, 3:02, 3:01 i primi 5 km. Personale sui 5000 demolito. E ne avevo ancora di birra!
Il forestale perdeva qualche metro, ma mi aveva sempre nel mirino. Arrivò a staccarsi trenta metri, intorno all’8° km. Pensavo di avercela fatta. Pensavo male. Al 9° km, chiusi un filo sotto i 27’, vado in crisi. Al 10° il forestale rientra. L’11° km è un gioco di nervi. Spalla a spalla. Ci pesiamo reciprocamente la fatica con occhiatacce rapidissime. Il forestale rimbalza ancora bene sui piedi. So che a momenti mi lascerà sul posto. Quel momento comincia alla fine dell’11° km. Una mazzata tremenda. Sembrava stesse partendo allora per un 1500. Chiusi gli occhi e feci finta di andargli dietro (che cacchio avevo da perdere? Il terzo era ad un minuto e mezzo). A 400 metri dalla fine il forestale gira a sinistra. Sta infilando il traguardo al contrario. Non ha capito che deve fare ancora un giretto intorno ai campi da tennis. Allora è cotto pure lui! Provo a ripartire, mi avvicino (sembra). Finisco secondo in 36:11, a 5” dal primo. Era il 1986.
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Vivicittà Pescara 1987 |
L’anno dopo Pescara era Budapest. Erano calati gli Unni. La nazionale ungherese di mezzofondo, quasi al completo, schierava per quell’edizione del Vivicittà pescarese nomi che soltanto a leggerli davano i brividi: Attila Kozma, Robert Banai, Mallar Zolt… (erano una decina). Tutta gente con personali che andavano dai 7:55 sui 3000, 28:30 sui 10.000, 2:12 sulla maratona, 8:25 sui 3000 siepi, 3:38 sui 1500. Giusto per dare un’idea. E poi c’era pure il forestale dell’anno precedente, e due carissimi amici abruzzesi al 100%, quell’anno tesserati per l’Aeronautica (scontavano l’anno di naia): Maurizio Salvi e Carlo Simongini (‘ragazzini‘ terribili da 14:07 sui 5000 il primo e 8:01 sui 3000 il secondo!).
Venivo da un inverno tribolato assai: una sciatalgia mi aveva fermato per tutto il mese di gennaio. Ripresi come un mulo a febbraio. Farcito di fatica arrivai a correre a metà marzo la mia prima ed unica (almeno con velleità agonistiche) mezza maratona: la Roma-Ostia. Lì sballai tutto andando subito dietro ai primi e passando ai 10 km abbondantemente sotto i 31’. Il vento gelido e contrario sulla Cristoforo Colombo fece il resto. Finii sulle ginocchia al 20° posto in 1:06:48 (di mezze in carriera ne ho corse due: quella, nell’’87, ed un’altra vent’anni dopo, per scommessa, in 1:18:54).
Tre settimane dopo la Roma-Ostia c’era il Vivicittà. Sì, c’erano gli ungheresi e gli altri, ma io volevo giocare con loro. E scendere sotto i 36 minuti.
La sera precedente la gara, prima di andare a nanna, feci la sciocchezza di mandare giù a canna mezzo litro di una bevanda isotonica gelata di frigo. Passai la notte al cesso tra spasmi addominali allucinanti e brividi di freddo che correvano su e giù per la schiena. Provai a prender sonno alle quattro del mattino. Alle sei mi alzai. Indossai calzamaglia, scarpette e felpa. Scesi in strada e, ‘a secco’, corsi tre chilometri così: 3:30, 3:20, 2:50 (ma che cazzo mi girava per la testa a ventidue anni?). Tornai a casa contento. Le gambe sembravano frullare come volevo (quei tre chilometri servirono a portare a metà cottura una patata che ebbe il tempo di lessarsi ben bene qualche ora dopo).
Alle 10:30 il via dello starter liberò tutte le mie tensioni e le mie paure. Ma stavo da schifo. Le gambe erano di burro. E avevo addosso pure qualche linea di febbre. Neanche stavolta però mi sottrassi al mio ruolo di front runner scassa palle. Tirai io, vento in faccia, i primi 8 km. Poi le gambe mi lasciarono. Chiusi al 9° posto, ma feci comunque il personale: 35:59. Gli ungheresi ne piazzarono cinque nei primi dieci. Primo Attila Kozma, secondo Mallar Zolt e, per il terzo, non ricordo come finì la volata tra Robert Banai e Simongini. Tutti ad una ventina di secondi da me.
Ventiquattro anni fa, avevo ventidue anni, viaggiavo a 3’00”/km su 12-15 km. E, nonostante ciò, in Italia, atleticamente, non ero un cazzo di nessuno.