Leggevo, in questi giorni, di un abbandono o, più precisamente, di un arrivederci (non un addio) accorato, da parte di un giovane (non giovanissimo in verità) podista abruzzese. Un buon atleta agonista da 3:15/3:20 al chilometro su distanze di dieci dodici chilometri, esprimeva a mezzo lettera telematica aperta tutta la sua sofferenza per un cambiamento importante avvenuto di recente nella sua esistenza: “[…] Mi sembra doveroso far sapere a questi amici, che ho scelto il mondo del lavoro, e non so se questo lavoro in futuro mi permetterà di continuare a fare sport, certo che ce la metterò tutta”. Nella sua lettera aperta di addio –
pardon, arrivederci – mi hanno colpito molto alcuni passaggi, a mio giudizio significativi di un modo di interpretare la pratica dello sport, nonché di valutarne i ‘numeri’ (dal valore atletico di una prestazione, in particolare, al senso concreto di praticare uno sport
tout court).
Premetto che conosco l’estensore della lettera aperta. Qualche anno fa gli diedi una mano a preparare i Campionati Italiani Assoluti di Mezza Maratona. In quell’occasione arrivò terzo nella categoria Promesse, con il tempo di 1:09:34 che rappresenta ancora oggi il suo primato personale. Ebbi perciò modo di apprezzarne sia l’indubbia tenacia in allenamento, sia una certa ritrosia a seguire fedelmente i programmi stabiliti. Ed è per questo che la collaborazione tecnica si concluse appena dopo quel campionato di mezza maratona.
In un altro passaggio della lettera del giovane podista si può leggere: “Mi sarebbe piaciuto trovare un lavoro che mi avrebbe permesso di farlo (di continuare a correre, ndr), ma purtroppo lavoro fuori regione e in futuro pure all’estero. Ma non sono né il primo né l’ultimo che arrivato ad una certa età si trova davanti a questo bivio”. Segue poi una sorta di sfogo (ma, in fondo, tutta la lettera è uno sfogo): “Correre non è solo uno sport, è la passione che ti scorre nelle vene, è l'adrenalina che ti sale a stantuffo nel cervello nel momento che stai tagliando il traguardo. Non basta vincere, per quelli come me è necessario superare i propri limiti andando sempre oltre. Oltre ogni confine perché, sono convinto, che non ci sia un limite per un uomo che ha voglia di superarsi”. Queste parole, così cariche di imberbe virilità, mi permettono di dare un consiglio al giovane podista: se per te non basta vincere, ed è preminente il bisogno di superare i tuoi limiti andando sempre oltre, “oltre ogni confine” come scrivi, perché lasciare la corsa, adesso che le cose si fanno davvero difficili? La vera sfida comincia ora!
E allora torno con la memoria ai miei vent’anni di discreto mezzofondista: 14:43 sui 5000, 8:33 sui 3000 e 1:06:48 nella mezza maratona. Con me correva l’amico Marco Agresta (clicca
qui), mio coetaneo o giù di lì. Marco aveva tempi un po’ più alti (sui 5000 credo vantasse un comunque notevole 15:07) ma, diversamente da me che a quel tempo potevo dedicarmi pienamente al running, lui si ‘smazzava’ dodici ore filate di lavoro durissimo. Ecco, Marco allora andava “oltre ogni limite”! E lo faceva in silenzio, lavorando e correndo, quotidianamente, da gennaio a dicembre. Marco, oggi quarantaseienne, sposato e padre di due magnifici ragazzini (un maschio e una femmina), continua a correre, dopo il lavoro e gli impegni di famiglia. Su una gara di 10 km attualmente mi darebbe non meno di 20”/km.
Potrei fare altri esempi di corridori capaci di andare “oltre ogni limite”. Camillo Campitelli forse è il più illustre di questi (si legga il post che gli dedicai tempo addietro, cliccando
qui).
Il giovane podista poco prima di chiudere la sua lettera scrive: “La vita però ci pone davanti a delle scelte. Ingrate e crudeli. Non basta essere bravo, per fare sport in Italia occorre qualcos'altro che io non ho. Qualcosa che non mi appartiene. Io sono uno sportivo, amo lo sport puro, quello vero e sincero, non quello drogato sia sportivamente che commercialmente parlando. Così, per me non c'è spazio in questa realtà e neanche futuro, per cui dico arrivederci. Mi aspetta il mondo del lavoro. Altre sfide, altri limiti da superare”. Sono parole forti. Ma anche puerili (e lo dico non in senso spregiativo) e perciò cariche di quella forma di innocenza tipica di certi giovani che risolvono l’interpretazione del mondo in due semplici battute, il bianco di qua, il nero di là.
Al giovane podista dico che per vivere di running in Italia non basta essere bravi come lui. Questo è assodato (per entrare in un gruppo sportivo militare bisogna correre almeno a 3:00/km per 10.000m). Gli dico pure, da allenatore e per averlo seguito qualche mese, che per correre a 3:20/km, per dieci chilometri, con le sue qualità, basterebbe un’oretta al giorno di allenamento, doccia inclusa. Se per ‘viaggiare’ a 3:15-3:20/km bisogna dedicare quasi tutta la giornata all’allenamento, allora forse c’è qualcosa che non va dal punto di vista tecnico (e forse anche esistenziale: se il motivo dell’abbandono è il lavoro e se per effetto di questo non si riesce a disporre di un ventiquattresimo della propria giornata, che diamine di vita è?).
Concludo, dando al giovane podista qualche informazione sugli atleti che lo precedono di qualche decina di secondi o lo tallonano da vicino, nelle varie distanze del mezzofondo resistente, qui in Abruzzo e fuori regione: molti di essi riescono a conciliare lavoro durissimo e allenamenti senza troppi patemi. Si pensi a “Sat” Saturnino Palombo e Flavio Di Bartolomeo, due mie atleti “over 30”. Magari fare una chiacchierata con loro potrebbe aiutarlo a desistere dai suoi propositi di abbandono. Il giovane podista potrebbe così pure scoprire che non è il solo ad amare “ […] lo sport puro, quello vero e sincero, non quello drogato sia sportivamente che commercialmente parlando”.