lunedì 23 luglio 2007

Where are we going?



Qualche settimana fa sono tornato a correre nella pinetina vicino casa mia. Una "latitanza" di circa un anno e mezzo. Mentre giravo sull'antico circuito non ho potuto fare a meno di notare un gruppo di ragazzi, sui sedici anni, ubriachi e non so cos'altro, divertirsi a massacrare un pino a colpi di bottiglie di birra. A dire il vero la più attiva nell'"impresa" era una ragazza che, cellulare incollato sull'orecchio, spargeva cocci scuri taglienti e bestemmie dappertutto. Le faceva il controcanto un'altra quindicenne strafatta, a piedi scalzi e coi jeans calati fin sotto le chiappe; il perizoma sembrava chiedesse scusa.

"Come va, signo'?", eravamo soliti chiedere diversi anni fa alla mitica bidella Rosetta. E lei, filosofa di scuola stoica, ci rispondeva: "Sempre un po' peggio", con atarassica, serena rassegnazione.

A questo punto credo valga la pena postarvi un mio scritto di due anni fa. Avevo da poco compiuto quarant'anni.
Buona lettura.

Lo zainetto kaki

Prima un rutto. Poi un peto. Ancora un rutto e giù risa, sguaiate, di sedicenni fumati, che puzzano di birra e di scarpe da tennis. E anche di peti.
Il crocchio fa versi strani, si litiga per un pezzo di fumo. Qualcuno sta seduto su una panchina, qualcun altro tira pigne e si nasconde dietro un pino. Altri arrivano alla spicciolata su motorini spompati, che fanno più fumo del tossico che non vuole mollare il pezzetto di marocco della contesa. Si divertono a fare zig zag tra gli alberi. Qualcuno sgrattugia un paio di cortecce fingendo disinvoltura. “Tutto calcolato” fa, in una strana lingua tonale. Ma sanguina da un braccio e non gli crede un cazzo di nessuno. Un beone rumeno, trent’anni portati molto male, birra e urina fin dentro le scarpe, gira in tondo con una bottiglia in mano e ride. Sembra uno di loro, sta in mezzo a loro. Ma non è uno di loro. C’è ma non c’è. Lo urtano, lui fa un’altra piroetta e poi continua il discorso interrotto con l’amichetto rumeno che non l’abbandona dall’ultima sbronza di peroni bollente. L’amico fedele che non vuol scendere giù dalla sua spalla e che gli somiglia tanto. Da sobrio però.

E’ il settimo giro di corsa che faccio, dentro ‘sta fottutissima pineta. C’ho passato i migliori anni della mia vita a preparare mezze maratone in giro per l’Italia. Un anello di settecentosessanta metri, non uno di meno, misurati al millimetro con la rotella metrica dell’ufficio tecnico comunale. Adesso però faccio altro nella vita, per fortuna, ma la panza e quarant’anni da poco compiuti mi dicono che girare in tondo per un’ora, almeno quattro volte a settimana non è proprio da coglioni.
Cerco con la coda dell’occhio la sagoma della mia ombra. Lo facevo pure vent’anni fa. Mi esaltava vedermi correre a fianco un altro io, più etereo di me – un metro e ottantaquattro per sessantasei chili, giusto un’ombra – la sintesi perfetta, il distillato di tutte le minchiate che mi passavano allora per la testa. Eppure quel mandare il cervello in alfa, staccare col mondo e partecipare del mio, solo del mio… Cazzo! Dai che sono qui anche per questo.
Dopo il nono giro non riesco a scorgere la mia ombra. Forse è la stanchezza. Da qualche tornata c’ho il sudore che mi brucia gli occhi. Farei fatica a riconoscere pure mia madre. E lei me. Si sarà fermata a pisciare. La mia ombra dico. Ma io non l’aspetto. Lei non ha problemi di peso. Io sì. Lo zainetto con la maglietta di ricambio però non lo mollo con lo sguardo. L’ho appeso ad un rametto spezzato di un pino che mi saluta ad ogni giro. Per carità è uno stupido zainetto kaki, supersponsorizzato. Dentro c’è soltanto una maglietta di cotone ultralisa, di quelle da cinque euro per tre pezzi. Mi serve per il ritorno. Finisco l’allenamento in pineta, mi cambio e torno di passo a casa, un chilometro e mezzo più in là, tanto per defaticarmi e per fare ancora qualche metro.
Il decimo giro è salutato da un “vaffangul’ a mammete, cala ‘sso carico a bastoni!”. Il crocchio sedicenne ora fuma, rutta e gioca a briscola su una panchina lurida a pochi metri dal mio sentiero. Una pigna mi rotola tra i piedi e la schivo buttando via almeno due preziosissime stille di glicogeno. Un imbecille coi jeans dal cavallo più basso della mia glicemia ride, si giustifica e scorreggia. La pigna successiva lo prende in pieno, sullo sterno. L’imbeccille rotola, piangendo e ridendo, vicino alla prima pigna, ma io sono già lontano. Lo scavalcherò al giro successivo, dribblando pure due amici suoi che lo accarezzano coi piedi, le mani in tasca, ruttando e bestemmiando.
Il rumeno gira ancora su sé stesso, ma ha cambiato verso.
Mi mancano due giri, cazzolino! Cerco un’agilità che non c’è. Non c’era undici passaggi fa figuriamoci ora. Ritrovo però la mia ombra. E’ impettita come ai bei tempi. Sembro io. E allora accelero. Beh, accelero. Diciamo che tiro un po’ su le frequenze, faccio andare le gambette. E inizio a incespicare, le caviglie cedono sulle conosciutissime pieghe del terreno, sulle radici dei pini, sulle pigne cadute. Sulla bottiglia di merda del rumeno, maledizione a lui.
Ultimo giro. Ma dov’è lo zainetto? Mi è sembrato di non averlo visto appeso al pino. Sarà come per l’ombra. Sarà andato a pisciare. Ripasso per l’ultima volta vicino al crocchio che rutta. E’ dimezzato. La cosa mi fa pensare, ma non posso permettermelo, l’ossigeno mi serve per l’ultimo giro. Faccio appena in tempo a tagliare il traguardo che mi prende la fregola di controllare il pino appendizaino. E il mio zainetto.
Non c’è. Me l’hanno fregato. Fanculo a loro, tanto c’era solo una maglietta ultralisa. La maglietta per il ritorno a casa.
Allora prendo e parto verso il crocchio dimezzato.
“Scusate ragazzi, mica avete visto del movimento attorno a quel pino? E’ che c’era appeso il mio zainetto col ricambio. C’era solo quello dentro”, dico cercando solidarietà, come un preservativo da Ruini.
“No, visto niente” risponde un cazzonetto con la visiera del berretto calata fino al mento.
“Era color kaki, lo zainetto” dico cercando la chiusura di quel dialogo improbabile.
Il crocchio sono quattro ragazzi attorno ad un tavolaccio lurido. Tre ragazzi e una ragazza, o almeno tale mi sembra. Alla parola “kaki” la tipa mette la testa tra braccio e avambraccio e sbruffa una risata. Gli amici cercano allora alla meno peggio di coprirla facendo cerchio, trattenendo a stento le risa anche loro. Faccio per andarmene, ma ci ripenso e torno indietro.
“Kaki vuol dire color sabbia, non è un’esortazione!” le faccio con malcelata incazzatura.
Stavolta me ne vado davvero. A casa, e di corsa perché il sudore mi sta gelando addosso.

Pescara, 15.06.2005

giovedì 19 luglio 2007

La passione prima della fatica



Quando guardiamo ai corridori degli altipiani, ai keniani onnipresenti in ogni maratona internazionale, spesso vincenti, non possiamo non pensare al business che gira intorno al loro “naturale” talento. Non possiamo non andare, col pensiero, alle multinazionali del running; ai loro fatturati fantastiliardari.
Nonostante ciò, mi piace pensare ancora che dietro i successi di quelle anime affilate e nobili ci sia il lavoro intelligente e appassionato di un gruppo di esseri umani.