martedì 27 agosto 2019

In medio stat virtus

D’inverno, molti anni fa, a Pescara il venerdì pomeriggio c’era il ‘medio’.
Per chi non è avvezzo al ‘lessico famigliare’ dei mezzofondisti “anni ‘80”, il ‘medio’ era la pratica crudele e necessaria di un mezzo di allenamento spesso ‘tirato alla morte’ (altro che ‘appesantire’ il ritmo gara di 15-20 sec/km!), su distanze che oscillavano tra i 10 e i 14 chilometri. 

Il ‘medio’ si correva al parco (al d’Avalos o in ‘Pinetina’) da novembre a gennaio, e su strada da febbraio in poi. 

Preferivo quello ‘stradale’ ché il cross mi stava proprio sul piloro. (Devo però dire che più di una volta, tra il 1986 e il 1987, corsi 16 chilometri nella gloriosa ‘Pinetina’ a circa 3’20”/km, da solo, ‘volando’ tra radici e curve a gomito per una ventina di giri). 

I ‘medi’ del venerdì pomeriggio, in alcune occasioni, avrebbero fatto la felicità di più d’un organizzatore di gare podistiche locali. Di frequente, infatti, a scannarsi letteralmente si era in dodici, quindici. Il più scarso prendeva 3-4 minuti dai primi, pur ‘viaggiando’ a 3’30”/km… Mancava solo il pettorale di gara. 

Altre volte il ‘medio’ era questione per pochi intimi. Due, tre ‘carbonari’ al massimo. 

A vent’anni ero molto bravo a ficcarmi nei guai. Avevo un talento speciale per massacrarmi da solo scegliendo ‘compagni di viaggio’ decisamente fuori dalla mia portata. Incoscienza e presunzione sovente vanno a braccetto. 

Un venerdì di febbraio 1986 invitai Luciano Carchesio a correre un ‘medio’ con me. E sapevo bene di che morte sarei morto. Per migliorare, solevo ripetermi, bisogna essere armati di un misurato, ma deciso masochismo. 

Il ‘medio’programmato in quell’umido venerdì di febbraio era lungo 12 chilometri. Teatro della pseudo-tenzone la riviera nord di Pescara; partenza dallo stabilimento “Delfino Verde”, giro di boa al sottopasso di Montesilvano (oggi zona “Porto Allegro”) e ritorno. 

Due parole due su Luciano Carchesio: uno dei più grandi talenti del mezzofondo nazionale; campione italiano dei 3000 siepi nel 1982, davanti a Francesco Panetta. Luciano Carchesio, uno che chiudeva in 37”-38” gli ultimi 300m di un 3000 ‘galoppato’ sul filo degli 8 minuti; un mezzofondista che si allenava poco e che correva la mezza maratona in 1h04’02”. Stop. 

Quel venerdì di febbraio del 1986 facemmo un breve riscaldamento. Giusto 3 km partendo subito a 3:40/km e chiudendo a 3:20. Qualche allungo di un centinaio di metri e via… 

Faceva freddo, eravamo in due, e Luciano aveva una gran voglia di chiudere subito la pratica. Partimmo a 3:12/km e tenemmo quel ritmo fino al 4° km. Il 5° km lo chiudemmo in 3:06. 

“Non vedi, Mario? Qui siamo in discesa… Guarda, le gambe girano da sole...”, mi fece Luciano. Ma la discesa non c’era. Il vento da nord invece, quello sì. 

Volli cedere alle sue suggestioni. E lo seguii per altri 4 km, tutti corsi sul filo dei 3:02-3:03 al km. 

Poi si rese conto della fatica che stavo facendo. Rallentammo nei due km che seguirono (il 10° e l’11°). 6:24 quel 2000m. Mancava un chilometro. Chiusi gli occhi e cercai di seguire Luciano. Lui fece 2:38. Io 2:47. 

Quel giorno venni promosso: da “tapascione” a “tapascione di lusso”. Compresi pure che per andar più forte devi necessariamente seguire uno più forte. 

Due mesi dopo – era l’aprile del 1986 – chiusi i 12 km del mio primo Vivicittà in 36:11.

lunedì 19 agosto 2019

Più movimento, meno 'effetti speciali'


Basterebbe il buon senso per capire che iscrivere i propri figlioli a questo o a quel corso di “avviamento allo sport”, per un’oretta di ‘attività motoria’, due-tre volte per settimana, non sia la panacea per risolvere i loro problemi derivanti da stili di vita non compatibili con la salute. 

Figuriamoci se tali interventi, seppur lodevoli, riescano, taumaturgicamente, a produrre campioni nello sport. 

Se da un lato crescono di numero gli ultraquarantenni che si dedicano ad attività sportive ‘coreograficamente’ sempre più estreme – spesso ridotti a gadget umani collegati a tutte le piattaforme esistenti di training analysis sportivo – dall’altro i loro figlioli si muovono sempre meno e mostrano i segni evidenti e devastanti di abitudini che sarà molto difficile cambiare nel breve-medio periodo. 

Non tutte le associazioni sportive, però, lavorano allo stesso modo. 

Da educatore, e da direttore tecnico di un'associazione sportiva dilettantistica (ma sì, diciamo anche il nome: https://www.facebook.com/passo.logico/), ritengo che sia prioritario porre attenzione sull’utilizzo del tempo nella seduta di allenamento. Da mie osservazioni ho potuto riscontrare che nel rapporto tra attività e pause c’è una preponderanza imbarazzante di queste (non si va mai al di sotto del 70%) contro un esercizio che può addirittura ridursi all’ 8-10% della seduta stessa. 

Si può perciò assistere ad un paradosso: bambini che non frequentano corsi di “avviamento allo sport”, ma che si dedicano in modo significativo a giochi spontanei di movimento, possono manifestare uno sviluppo delle capacità motorie maggiore di quello dei bambini frequentanti. 

Take home messages.
È necessario che gli istruttori preparino in modo puntuale le loro lezioni, al fine di azzerare i tempi morti; essi dovranno ridurre all’essenziale il tempo della parola aumentando notevolmente quello dell’esempio concreto, della dimostrazione pratica; il numero dei bambini da seguire sarà adeguato agli spazi e alle attività da eseguire; la scelta degli esercizi e delle modalità esecutive degli stessi sarà finalizzata al coinvolgimento simultaneo del numero maggiore possibile di bambini; preferire il ‘recupero attivo’ alla pausa assoluta, riducendo quest’ultima al minimo indispensabile.

giovedì 15 agosto 2019

Cambiare il cambiamento - parte seconda


L'atleta è quindi al centro di un sistema virtuoso di curiosità logicamente orientate al risultato. Intelligenze multiple al 'servizio' dell'Atleta.

La descrizione dell'obiettivo del PROGETTO 92 recitava così:


"Il “Progetto 92” (P92) costituisce l’articolazione di una serie di iniziative che si propongono di affiancare la preparazione atletica al momento effettuata da Giovanni de Benedictis (da questo punto indicato come “atleta”) e di sostenerne, favorirne e condizionarne a buon fine tutti gli aspetti che finora non hanno trovato una compiuta e il più possibile scientifica definizione. 

La fig. 2 mostra lo schema a blocchi che descrive il procedimento operativo nelle sue componenti principali. 

La fig. 3 illustra il quadro di riferimento che si pone come obiettivo della totale esplicitazione dell’intervento.





La denominazione stessa del progetto riferisce la scadenza temporale alla quale le attività sono orientate ed individua il termine entro il quale esse si propongono di agire. 

Ognuno dei supporti mostrati nella figura 3 può essere descritto in maggior dettaglio...".

Il PROGETTO 92 mostra certamente molte 'ingenuità' legate al momento storico in cui fu realizzato (penso alle strategie di comunicazione e al ruolo che hanno i social network oggi), ma ritengo  che possa comunque rappresentare un esempio di buone pratiche permeate da un approccio scientifico forte ed etico.

"La necessità di disporre di attrezzature e competenze specialistiche orientate a tutti i settori di intervento della medicina dello sport comportano la necessità di instaurare uno stretto rapporto di collaborazione con uno o più consulenti in Medicina dello Sport e possibilmente con strutture universitarie e di ricerca italiane ed estere. 
In particolare saranno definiti i protocolli di ricerca che accompagneranno l’atleta nell’attività di allenamento e, per quanto possibile, nelle competizioni".

Già, la ricerca. Investire in ricerca piuttosto che su vagonate di followers...

sabato 10 agosto 2019

Cambiare il cambiamento - parte prima

(Il team del Progetto 92)
Viviamo un tempo strano, fatto di frequenti slanci puerili e privo di memoria buona, dove la parola "cambiamento" rotea minacciosa e inquietante, tagliente, a due dita dal collo sottile del nostro povero futuro.

Anche lo sport subisce gli effetti evidenti di questa infelice temperie culturale, morale; politica. Anche nello sport, in generale, e nell'atletica leggera in particolare, incombe il "cambiamento", invocato quadriennalmente alla vigilia delle olimpiadi.

Se è vero che il settore tecnico della FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera, occorre specificarlo ché siamo rimasti davvero in pochi a saperlo) è la spina dorsale di questo ingarbugliato e anemico sistema sportivo nazionale, allora è necessario ripartire da esso.

Voglio ricordare a me stesso e ai viandanti del blog che ben trent'anni fa - correva l'anno 1989 - a Pescara realizzammo un progetto che permise a mio fratello Giovanni l'ottenimento del bronzo olimpico nella 20 km di marcia alle olimpiadi di Barcellona, nel 1992. Quel progetto, seppur datato, conserva ancora, a mio giudizio, spunti notevoli per riflettere, ripensare l'attuale organizzazione del settore tecnico federale, e il suo "modus operandi", tout court.

Scriveva l'amico Valerio Di Vincenzo, dieci anni fa - era il 2009, anno dei Giochi del Mediterraneo a Pescara - a proposito del Progetto 92 (questa la dizione originale del titolo di quella magnifica esperienza):

"A cominciare dal 1989 Mario ed io abbiamo iniziato a studiare strategie per vincere le Olimpiadi di Barcellona. Io, con le conoscenze maturate da ricercatore universitario in medicina, proponevo i metodi e gli strumenti. Lui li traduceva in protocolli scientifici di allenamento, in fitte tabelle di dati funzionali e rilievi sul campo che venivano graficizzati in forme primordiali di pagine elettroniche, allo scopo di valutare gli effetti, nel tempo, delle fasi di lavoro. Giovanni ci metteva il fisico ed un carattere che esprimevano la sua energia sovrumana. Claudio interpretava olisticamente il modello biomedico, assecondava i flussi energetici e la crescita delle prestazioni atletiche di Giovanni, leniva i dolori. Daniela appianava i conflitti e minava le basi di quella sindrome che - tra me e me – ho chiamato la “paura di vincere” ( quella che fino a quei tempi aveva attanagliato i primati mondiali che erano nelle gambe di Giovanni). Mamma Angela e papà Nino ci avevano adottati come parte integrante della famiglia. Tutto ciò cresceva giorno dopo giorno, confortato da risultati crescenti. Era qualcosa che non era mai esistito prima in nessuno di noi presi singolarmente, eppure si avverò quando decidemmo di lavorare insieme.
Ciò che potrebbe stupire oggi è che Giovanni, in preparazione della sua seconda olimpiade, accettò di affidarsi a questa strana combriccola, priva di alcuna precedente esperienza del genere, osteggiata dall’establishment, ma dotata di idee capaci di fare la differenza. Erano i tempi in cui un bel numero di medaglie olimpiche e maglie rosa erano prodotte in Italia dalle parti di Ferrara, ma Giovanni preferiva frequentare la riviera pescarese, le Dolomiti, gli altopiani messicani, a costo di litigare con taluni “santoni” della Federazione e, in fin dei conti, perfino di farsi superare in silenzio da gente che il buon sangue se lo faceva venire con mezzi diversi dal buon vino e dall’armonia tra mente e corpo.
Il fatto è che, parlando e riparlando con Mario, ho capito quanto le personalità come quella di Giovanni e come la sua sanno essere carismatiche anche continuando ad essere vere. Questo, secondo me, deriva dalla capacità di essere sempre coerenti con sé stessi e di affermare coi fatti valori inalienabili".

Nel Progetto 92 emergeva in modo chiarissimo un assunto: 

"[...] L’Italia soffre in modo particolare di tutto ciò (l'arretratezza delle motivazioni scientifiche, tecnologiche ed imprenditoriali che legano gli sponsor ai testimonials sportivi, nds) a causa di una tradizione che individua nel personaggio emergente un puro frutto della Provvidenza e lascia quindi più di altre Nazioni che i propri rappresentanti sportivi costituiscano nella maggioranza una raffinatezza artigianale piuttosto che la punta estrema di un dominio razionale del corpo e della mente sostenuto da adeguate energie intellettuali, materiali e tecnologiche. 

Questo ultimo elemento è invece il seme dal quale si vuole far scaturire l’iniziativa descritta nel presente progetto. Esso poggia sulla convinzione che nelle decisioni che governano la preparazione di un atleta a livelli superiori, sia possibile definire un metalinguaggio che descrive ciò che attualmente si nasconde sotto i paraventi dell’occasionalità, della genialità, della fatalità e dell’approccio empirico se non alchimistico. 

Tutto ciò indica che l’obiettivo del “Progetto 92” non può essere inteso tout court con l’ottenimento della vittoria di una gara olimpica, nella fattispecie la 20 km di marcia delle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, chè dà il titolo al presente programma, quanto piuttosto la costruzione di una coscienza, di una metodologia e di una pratica che mettono alla prova un gruppo di esperti, di appassionati e un atleta d’eccellenza innanzi tutto di fronte a se stessi ed al concetto di ottimizzare il proprio operato confrontandolo a quelli di riferimento. 

Si ritiene che una volta definito in questi termini e sperimentato sul campo, l’insieme di interventi che circoscrive questa particolare iniziativa possa essere descritto e possa quindi divenire patrimonio dello sport moderno e come tale, negli ideali decoubertiani, del libero scambio di interesse, del sano agonismo, del gioco maturo e consapevole, del vivere civile.

[...] Nella fig. 1 sono riportati i fattori che determinano l’ottimizzazione del rendimento di una prestazione: la cura, la selezione, la crescita di ognuno di questi fattori, associabili al lavoro multidisciplinare e cooperativo di un gruppo omogeneo sono le risorse che consentono di individuare nella prestazione non più l’effetto di qualcosa di imponderabile sul quale scommettere, ma piuttosto la conseguenza di una sapiente miscela di ingredienti. 

Il risultato dipende ancora da fattori casuali, ma definendo meglio il sistema di riferimento, lascia a questi ultimi uno spazio misurabile di sviluppo. 

Non è un caso che uno schema mentale del tipo riferito in fig. 1 è stato applicato da sempre nella storia dell’uomo nell’"arte di fare la guerra”. Più piacevolmente nella espressione di principi di pacifica competizione, di confronto fisico ed intellettuale a livelli internazionali, di affermazione di una specificità culturale, di sostegno alla diffusione di una professionalità fondata su criteri scientifici si incontrano le motivazioni dello sponsor di questa iniziativa e del sottocitato comitato tecnico e si giustifica l’inusuale supporto a scopi promozionali di un concetto piuttosto che di un risultato".

- fine prima parte -

venerdì 9 agosto 2019

Ariècchime!


"Ariècchime!", si direbbe a Roma. Dopo circa tre anni di 'buio' si riaccendono le luci di casa. Non chiedetemi perché abbia silenziato "Opinioni Aerobiche" ché, in verità, non lo so nemmeno io.
C'era sicuramente bisogno di una pausa. Avevo bisogno di una pausa.
Ora però Vi toccherà sopportarmi, di nuovo. Armatevi di pazienza e, sotto con i commenti, se Vi va.