"Sisifo insegna la superiore fedeltà che nega gli dèi e solleva i macigni. Quest’universo ormai senza padrone non gli appare sterile nè futile. Ogni grano di questa pietra, ogni bagliore minerale di questa montagna piena di notte, costituisce di per sè un mondo. Anche la lotta verso le cime basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice." (Albert Camus, Il mito di Sisifo)
Voglio raccontare una storia semplice e profonda cercando la via della sintesi ché ho paura di “tradire” un amico, scivolando sul retorico. La dedico a tutti quelli che sono capaci di distinguere il vero dal falso dentro al nostro mondo di faticatori per diletto podistico; la consiglio pure a quanti fanno confusione (molti in verità, troppi), gente usa a mitizzare chiunque tagli per primo il traguardo. Sì, a pensarci bene questa storia potrei pure dedicarla a quel popolo di scommettitori da cinodromo, santificatori da bar, lesti al linciaggio sommario appena si sgama l’ennesimo campione senza valore.
Prima di cominciare vorrei porre un quesito e abbozzare una risposta. Che cosa vuol dire campione? A me piace l’accezione medievale del termine. Campione come duellante in difesa di una causa nobile. Nello sport, il nostro sport, me lo figuro un po’ Parsifal, un po’ Sisifo. Un cavaliere appiedato per scelta e condannato all’amore per la fatica.
È da un po’ che cerco il “la” per questo mio racconto, armato di entusiasmo e devozione per qualcosa che dovrebbe essere un tributo alla persona che meglio incarna il “Senso podistico” di una regione, l’Abruzzo, sfiancata moralmente dalla dilagante volgarità del doping ruspante. La persona in questione è dunque un amico; è
Camillo Campitelli.
Camillo è il mito vivente del podismo abruzzese, un’icona del
running la cui forza eccezionale sta dentro un ossimoro:
straordinaria normalità. Perché Camillo è uno di quelli che prima di correre, o dopo aver corso, sta otto ore in fabbrica a fare altra fatica; Camillo corre dal ’76, quasi trentatre anni, senza interruzioni. Non detiene primati ufficiali, neanche a livello regionale, ma è il
runner più forte che io conosca.
Ci incontrammo per la prima volta trentadue anni fa, in una gara su strada, una delle prime
kermesse podistiche locali, figlie dell’
austerity del ’76. Camillo me le suonò ben bene. Per carità lui aveva quindici anni e io dodici, ma allora mi allenavo già come un keniano e avevo la resistenza di un varano dopato. Battermi non era un affaruccio semplice semplice. Insomma, per un paio di anni ci demmo “fastidio” a vicenda. Poi, intorno al ’79, partì dalla natia Castel Frentano per la Germania. No, non era stato ingaggiato dallo Shalke 04. Camillo andava su per un lavoro “normale”, credo come metalmeccanico. Lì, nonostante le difficoltà derivanti dall’essere giovane straniero spaesato, con la condanna necessaria di un lavoro prezioso e soverchio, trovò il modo di migliorare il suo personalissimo metodo di allenamento. Camillo, podista autodidatta e “anarchico”, conobbe la scuola del mezzofondo tedesco d’occidente. Affinò l’arte della temperanza e imparò la disciplina, unitamente ad una organizzazione del
training decisamente meno empirica delle sue corse matte e a perdifiato dentro la vallata del Sangro. Era cresciuto atleticamente, ma non solo. Se ne accorse pure lo Stato che lo chiamò per il servizio di leva, a Napoli, presso il Centro Sportivo dell’Esercito. Siamo agli inizi degli anni ’80, anni di vuoto edonismo reganiano, di panini e paninari, di moti studenteschi griffati Timberland e Moncler. Camillo cresce ancora atleticamente, e continua a macinare chilometri calzando Nike, ma non per moda. In Abruzzo è dappertutto, strada, pista, cross, montagna… Qualcuno giura addirittura di averlo visto correre, la stessa domenica, alla stessa ora, in due, tre gare diverse. Inizia così la costruzione del mito Campitelli.
Mito come discorso, racconto sull’arte del podismo di casa nostra. Un mito la cui forza poggia anch’essa sulla magia di un ossimoro: il frastuono silenzioso di imprese normali. Camillo dà l’anima per la corsa e si diverte. Chi volesse cimentarsi nella lettura degli albi d’oro delle più prestigiose “stradali” abruzzesi degli ultimi venticinque anni, troverà il suo nome, come costante, tra i primi tre classificati assoluti, un migliaio di volte. Camillo, che quando vince lo fa in silenzio, ogni tanto levando le braccia al Cielo, quasi a ringraziarlo di tanta benevolenza.
Cronometricamente dà il meglio di sé all’inizio degli anni ’90: 31’06” sui 10.000m, 1:06:52 nella maratonina, 2:26:21 nella maratona; tempi eccezionali perché ottenuti tutti (lo dico con convinzione) senza una preparazione finalizzata al “crono”. Perché Camillo non ha mai pensato al tempo. Ed è forse questo il suo segreto. Camillo è il corridore perpetuo, ed oggi, a quasi quarantasette anni, è ancora capace di correre la maratonina in 1:13. Poco gli importa l’aver buttato alle ortiche la reale possibilità di diventare pluricampione mondiale della 100 km (anche di questo, da tecnico, sono fermamente convinto; non me ne voglia l’ottimo Mario Fattore). L’arte di Camillo Campitelli è quella di attraversare il tempo, correndoci dentro e non rincorrendolo. Il sogno di ogni podista, ciò che amo chiamare
long life running, è per lui, da sempre, eccezionale quotidianità, straordinaria normalità.