D’inverno, molti anni fa, a Pescara il venerdì pomeriggio c’era il ‘medio’.
Per chi non è avvezzo al ‘lessico famigliare’ dei mezzofondisti “anni ‘80”, il ‘medio’ era la pratica crudele e necessaria di un mezzo di allenamento spesso ‘tirato alla morte’ (altro che ‘appesantire’ il ritmo gara di 15-20 sec/km!), su distanze che oscillavano tra i 10 e i 14 chilometri.
Il ‘medio’ si correva al parco (al d’Avalos o in ‘Pinetina’) da novembre a gennaio, e su strada da febbraio in poi.
Preferivo quello ‘stradale’ ché il cross mi stava proprio sul piloro. (Devo però dire che più di una volta, tra il 1986 e il 1987, corsi 16 chilometri nella gloriosa ‘Pinetina’ a circa 3’20”/km, da solo, ‘volando’ tra radici e curve a gomito per una ventina di giri).
I ‘medi’ del venerdì pomeriggio, in alcune occasioni, avrebbero fatto la felicità di più d’un organizzatore di gare podistiche locali. Di frequente, infatti, a scannarsi letteralmente si era in dodici, quindici. Il più scarso prendeva 3-4 minuti dai primi, pur ‘viaggiando’ a 3’30”/km… Mancava solo il pettorale di gara.
Altre volte il ‘medio’ era questione per pochi intimi. Due, tre ‘carbonari’ al massimo.
A vent’anni ero molto bravo a ficcarmi nei guai. Avevo un talento speciale per massacrarmi da solo scegliendo ‘compagni di viaggio’ decisamente fuori dalla mia portata. Incoscienza e presunzione sovente vanno a braccetto.
Un venerdì di febbraio 1986 invitai Luciano Carchesio a correre un ‘medio’ con me. E sapevo bene di che morte sarei morto. Per migliorare, solevo ripetermi, bisogna essere armati di un misurato, ma deciso masochismo.
Il ‘medio’programmato in quell’umido venerdì di febbraio era lungo 12 chilometri. Teatro della pseudo-tenzone la riviera nord di Pescara; partenza dallo stabilimento “Delfino Verde”, giro di boa al sottopasso di Montesilvano (oggi zona “Porto Allegro”) e ritorno.
Due parole due su Luciano Carchesio: uno dei più grandi talenti del mezzofondo nazionale; campione italiano dei 3000 siepi nel 1982, davanti a Francesco Panetta. Luciano Carchesio, uno che chiudeva in 37”-38” gli ultimi 300m di un 3000 ‘galoppato’ sul filo degli 8 minuti; un mezzofondista che si allenava poco e che correva la mezza maratona in 1h04’02”. Stop.
Quel venerdì di febbraio del 1986 facemmo un breve riscaldamento. Giusto 3 km partendo subito a 3:40/km e chiudendo a 3:20. Qualche allungo di un centinaio di metri e via…
Faceva freddo, eravamo in due, e Luciano aveva una gran voglia di chiudere subito la pratica. Partimmo a 3:12/km e tenemmo quel ritmo fino al 4° km. Il 5° km lo chiudemmo in 3:06.
“Non vedi, Mario? Qui siamo in discesa… Guarda, le gambe girano da sole...”, mi fece Luciano. Ma la discesa non c’era. Il vento da nord invece, quello sì.
Volli cedere alle sue suggestioni. E lo seguii per altri 4 km, tutti corsi sul filo dei 3:02-3:03 al km.
Poi si rese conto della fatica che stavo facendo. Rallentammo nei due km che seguirono (il 10° e l’11°). 6:24 quel 2000m. Mancava un chilometro. Chiusi gli occhi e cercai di seguire Luciano. Lui fece 2:38. Io 2:47.
Quel giorno venni promosso: da “tapascione” a “tapascione di lusso”. Compresi pure che per andar più forte devi necessariamente seguire uno più forte.
Due mesi dopo – era l’aprile del 1986 – chiusi i 12 km del mio primo Vivicittà in 36:11.
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