domenica 13 ottobre 2019

Il tempo dei muri da infrangere: tra ricerca scientifica, sogno e folle plaudenti

(Eliud Kipchoge, foto Reuters)

Eliud Kipchoge, keniano quasi trentacinquenne, campione olimpico e primatista mondiale della maratona, è sceso sotto il limite delle due ore, sulla distanza dei quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, appunto. 

Chiusa, in fretta, la ‘porta’ dell’”Oregon Project” (dopo la squalifica di quattro anni per doping del coach Alberto Salazar) per la multinazionale del “Just do it” si spalanca il ‘portone’ di una prestazione annunciata e fantascientifica. 

Eliud, novello Filippide dai calzari al carbonio – absit iniuria verbis – ha corso la sua prova a Vienna, dentro il Prater, nel tempo di 1:59:40, seguendo il raggio laser di un auto elettrica, ‘lepre meccanica’ regolare al millesimo, e con trentacinque ‘lepri umane’, e sei riserve – fior di atleti blasonati e celebrati, provenienti da ogni dove – a scortarlo dettando il ritmo di un copione ben noto. 

Ci aveva provato già due anni fa, a Monza, Eliud. Ma allora rimase ‘sopra’ di ventisei secondi. Migliora, quindi, di quarantasei secondi il proprio primato non omologabile. 

Già, non omologabile, perché le lepri, umane e non, i rifornimenti in corsa, il percorso di gara (quattro giri da 9,6 chilometri, più un pezzetto) ne fanno un risultato non ascrivibile nell’elenco dei record mondiali della IAAF, oggi World Athletics

Di che cosa stiamo parlando, quindi? Di un risultato eccezionale, sicuramente. Qualcosa che, comunque, Eliud aveva già dimostrato di valere, quando corse la distanza l’anno scorso a Berlino in 2:01:39, senza ‘effetti speciali’, ma certamente ‘memore’ dell’esperienza di Monza. 

Saltando a pie’ pari il livoroso vociare di chi associa, in modo malizioso, il risultato monstre al supporto di un super sponsor ciclistico e di una multinazionale sportiva – anch’essa sponsor, ma di un progetto sportivo recentemente chiuso per doping – da allenatore col pallino dell’educazione rifletto su due aspetti di questa vicenda significativa e spettacolare. 

C’è la questione tecnica. Quanto valgono i risultati della ricerca scientifica applicata ai progetti che hanno permesso, in due anni, di arrivare al successo di Vienna? Che ricadute avranno sul modo di allenare gli specialisti dell’endurance, podistico e non, professionisti e non? Potranno beneficiarne anche i ‘comuni mortali’, al di fuori dello sport? 

C’è anche la questione socio-pedagogica. Il tripudio mediatico scatenato dal successo sportivo e commerciale nella kermesse viennese avvicinerà alla disciplina un numero ingente di persone; adulti e giovanissimi. La dimensione spettacolare di un risultato sportivo di questo tipo, le dichiarazioni del campione nel post gara (“Volevo ispirare tante persone, nell'idea di spingersi oltre i limiti umani, ci ho provato tante volte e questa volta ci sono riuscito”) vanno trattate con cura, soprattutto in ambito educativo, quando si ha a che fare con i più giovani. Insegnare anche il “not everything is possible” credo non sia un’idea peregrina, ma di assoluto buonsenso. 

Guy Debord, filosofo, sociologo e scrittore francese, nel 1967 pubblicò “La Société du Spectacle”. “Lo spettacolo si presenta come un'enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che questo, «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare»”, scriveva Debord. Ed io mi fermo a pensare... 


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