Sia chiaro: non ce l’ho con gli chef stellati. Né storco il muso dinanzi a certe genialità del marketing; e neppure mi scandalizzo quando in nome di un’economia da far ripartire si ‘benedicano’ patatine all’acrilammide oppure dolci dalla dubbia qualità degli ingredienti che li compongono.
Sia chiaro pure che non ce l’ho con chi ‘fa voti’ affinché si investa danaro pubblico per progetti formativi di imprenditori, locali o stranieri; illuminati o meno.
Senza denari non si canta la messa, recita il trito adagio levantino. D’accordo. Ma credo ci sia bisogno anche d’altro, soprattutto in questo particolare momento storico.
Il nostro è un tempo ‘complesso’, quanto mai incerto, dominato dalla precarietà dei valori e dal disorientamento, che trovano espressione compiuta in quel disagio giovanile del quale, a me pare, troppi parlano e pochissimi – soprattutto a livello istituzionale – si preoccupano, con scienza e coscienza.
La crescente fragilità dei sistemi relazionali – quelli familiari e non – come quella dei sistemi economici e del lavoro determinano quel senso di precarietà e di smarrimento che riconosciamo nei nostri giovani, sempre meno capaci di progettare e ‘progettarsi’, per il futuro, anche a breve termine.
Da educatore e tecnico dello sport credo ferocemente nell’efficacia di un’educazione orientata alla comprensione della “complessità del reale”. Lo Sport – il vivere lo sport come tirocinio alla mutevolezza dell’esistenza – con le sue opportunità di confronto, di dialogo, di relazioni ‘giocate’ con il corpo e la mente, può educare alla capacità di scelta e alla capacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Così da poter pure distinguere tra un cibo spazzatura e qualcosa di egualmente gustoso, ma più sano.
Esiste finanche – pensate un po’ – un’imprenditoria sportiva buona che, in soldoni, non fa solo cassa. Quell’imprenditoria avrebbe bisogno di far proprie alcune lezioni di marketing dello chef stellato di turno; e pure delle concrete attenzioni delle istituzioni locali e nazionali.
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