Cerco di non pensare alla velocità con cui sono passati i trent’anni che separano la finale della 20 km di Marcia dei Giochi della XXV Olimpiade a Barcellona, da questa presente – e forse più afosa di allora – giornata di luglio.
Trent’anni fa avevo ventisette anni. Mio fratello ventiquattro. Se fossi nato quel giorno, quel 31 luglio del 1992, oggi ne avrei appunto trenta, comunque tre anni più “vecchio” – forse più esperto? – di quell’allenatore che ero in quei giorni; un ragazzetto bellino, poco più che adolescente, con dentro tre-quattro sane certezze e tanta curiosità e voglia di imparare.
Mio fratello vinse una medaglia ben più preziosa del metallo di cui è composta. L’unica medaglia per l’atletica leggera italiana in quell’edizione delle Olimpiadi. Un podio ossimorico perché raggiunto con rabbia e serena fiducia nel supporto intelligente di un formidabile gruppo di lavoro; un gruppo di amici veri.
Giovanni, mio fratello, si fece beffe della malasorte. Riprese a marciare con una certa regolarità solo quaranta giorni prima della finale olimpica, dopo circa venti giorni di stop per un banale incidente: una sciocca partitella di calcio post allenamento, due contro due, al Sestriere a maggio.
Ricordo la salita che porta al Montjuïc. La feci d’un fiato, ma non riuscii a raggiungere Giovanni. Entrai trafelato dentro lo stadio, ma Giovanni era già arrivato. E poi la corsa al villaggio olimpico. Appena fuori dall’ingresso troneggiava una grande vasca a mo’ di fontana luminosa, e seduto sul bordo, con le gambe a mollo a cercare un po’ di refrigerio, c’era il mitico Gabriele Pomilio. Era quasi buio e Gabriele, placidamente, quasi senza guardarmi, mi disse: “ Godetevi questo momento. Avete fatto una cosa grossa assai”. Nove giorni dopo, il 9 di agosto, Gabriele Pomilio, abruzzese come me, imprenditore geniale e allora consigliere federale nazionale della pallanuoto, portava a casa l’oro olimpico. E tra i “magnifici sette” che piegarono le velleità di vittoria dei padroni di casa, capitanati da Manuel Estiarte, c’erano due pescaresi: suo figlio Amedeo e Marco D’Altrui.
Trent’anni fa avevo ventisette anni, e la lezione di quella straordinaria esperienza la compresi diversi anni dopo.
Credo di aver scritto tanto di quell’impresa, ma una volta di più voglio ricordare quanto sia stato importante il contributo di un’armonia perfetta di volontà intelligenti, appassionate e orientate allo scopo.
Ero l’allenatore, sì. Ma se ho avuto un merito dentro quella formidabile vicenda – qualcosa che ritengo, senza presunzione, abbia fatto la differenza – non è stato il mero ‘contributo tecnico’, che comunque ho dato. Credo che l’attività più nobile, difficile e decisiva ai fini del risultato finale, sia stata quella di aver tenuto insieme un team vincente, di amici, prima che di professionisti. Ecco, quella è stata l’arma segreta. Quello è l’insegnamento più alto che ho appreso fino ad oggi, non solo nello sport.
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