Chi non ha elaborato il lutto della perdita del proprio ruolo professionale (questa può essere la condizione degli atleti di livello medio-alto, chiusa la carriera agonistica), spesso ha dinanzi a sé due vie: quella del moto perpetuo alla ricerca di una patetica visibilità ad ogni costo (teatrini pseudo-politici inclusi), oppure il mesto sentiero dell'oblio, cercato con pervicace volontà, non senza maledire gli uomini e talvolta anche il Cielo.
Questa mattina, a ventun'anni esatti dalla scomparsa di Ayrton Senna, ho condiviso volentieri con Evelina la visione del documentario "Senna", diretto nel 2010 da Asif Kapadia. Bello. Appassionante. Struggente.
Senna, uno che il lutto lo elaborò in silenzio durante gli anni migliori della sua carriera, fino a qualche mese prima di morire, a Imola, in quel tragico primo maggio del 1994: l'istituto che porta il suo nome (Instituto Ayrton Senna), fondato dal pilota nell’inverno del 1993, fino ad oggi ha realizzato programmi di scolarizzazione e assistenza medica per oltre 16 milioni di bambini. (“L’istituto incassa 2 milioni e mezzo l’anno dalle royalties sui prodotti a marchio Senna – spiega Claudio Giovannone, padrino per l’Europa dell’Istituto Ayrton Senna – e li spende tutti in programmi di assistenza all’infanzia: dallo studio al gioco, alle cure mediche, per cercare di dare al maggior numero possibile di bambini brasiliani la possibilità di avere un futuro”).
"I ricchi non possono vivere su un'isola circondata da un oceano di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti una possibilità". (Ayrton Senna)
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