mercoledì 25 agosto 2010

La scienza col cuore

Corridori e marciatori, quasi tutti prima o poi, capiscono che senza scienza non si va lontano. E anche quanti non lo comprendono, comunque, prima o poi, verranno toccati da qualche dubbio: mi sto muovendo bene? Potevo fare altro?
Ma la scienza, si sa, in atletica come altrove da sola non basta. C’è bisogno del cuore, concetto inafferrabile, mastice dell’anima con cui sovente si è portati a risolvere ciò che le proprie competenze tecniche in quel momento non possono dirimere; pozione formidabile con cui, a volte (non poche volte, in verità) è possibile colmare i limiti di un talento modesto.
(Foto di Giancarlo Colombo/Fidal)
La scienza ha bisogno del cuore, quindi. E viceversa.

In questi giorni ho scritto di nicchie e di giovanissimi campioni. Qualcuno (più d’uno) tra i viandanti del Web mi ha comunicato, per iscritto, le proprie perplessità circa la bontà di un metodo di allenamento capace di condurre un atleta ancora adolescente (marciatore/marciatrice nel caso specifico) a risultati di pregio mondiale. “Quanti chilometri fa, tal marciatore?”, “Quante sedute settimanali svolge, tal marciatrice?”, questi i refrain più che plausibili, interrogativi provenienti non da meri tifosi o sportivi della domenica, ma da esperti, tecnici, ed ex atleti di livello nazionale.

Io però ho un'altra domanda. Quanti esperti del nostro variopinto universo atletico si son presi la briga di confrontarsi, di discutere, e perché no, di ascoltare chi potrebbe finalmente invertire il trend di questo nostro sport anemico e povero di fantasia? La scienza ha bisogno di ascolto. Lo dico col cuore.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Beh, naturalmente non mi stupisce affatto questo tipo di domande. E' piuttosto comune nel nostro mondo, all'indomani di una importante vittoria, ricercarne le cause in un carico di allenamento superiore rispetto alla media.
Senza entrare troppo nel merito della questione - ribadisco che non sono un tecnico e che non ambisco affatto a diventarlo - mi limito a ripetere un semplice concetto in cui credo e che già in precedenza mi è capitato di esternare su questo blog.
Premesso che si tratta di ragazzi di 16, 17 e 18 anni, ancora studenti e magari costretti a viaggiare con i mezzi per raggiungere la scuola, difficilmente potranno sostenere più di 6 o 7 allenamenti settimanali - proprio perché programmare delle uscite mattutine potrebbe richiedere sacrifici eccessivi - ritengo che il talento vada allenato da talento. E' chiaro che il bravo allenatore dovrà essere soprattutto abile nel bilanciare oculatamente gli sforzi, senza mettere a rischio un'eventuale carriera e senza massacrare il ragazzo al punto dad fargli passare la voglia di far fatica. Ma non mi sembra pensabile che un ragazzo dotato di maggiori qualità e di una particolare predisposizione naturale faccia le stesse cose di un ragazzo meno talentuoso e che si allena nella semplice ottica di un benessere fisico.
Del resto è quello che accade in tutti i campi, dalla scuola al lavoro, così come in tante discipline artistiche. Perciò non capisco perché non dovrebbe essere così nello sport. Anzi, a maggior ragione nello sport, visto che la carriera ha una durata piuttosto limitata nel tempo...

Un saluto.
Sat