
Chiusi i mondiali berlinesi di atletica leggera si continua a piè sospinto nella ricerca della causa prima della debacle italiana. Giornalisti, allenatori, atleti, gente comune, tutti, a turno, hanno puntato il dito ora sulla scuola, ora sulla molle opulenza della società occidentale (nell’ambigua variante italiana), ora sull’incapacità gestionale della dirigenza federale. Tante parole, forse troppe. L’atletica italiana di vertice è in difficoltà. Qualcosa è cambiato. Anche gli atleti offrono il loro campionario di sfoghi e recriminazioni. Mi fa riflettere quello dei nostri marciatori. Essi parlano con insistenza dei loro sacrifici quotidiani. Li danno in pasto alla stampa, a caldo e non. In un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa.it (22.08.09) Schwazer, alla domanda “Se potesse cambiare qualcosa nella sua preparazione che farebbe?” risponde: «Vivrei di più, perché negli ultimi mesi ho rinunciato a tutto per la marcia. Se fossi venuto qui senza fare fatica, dopo aver folleggiato per l’oro di Pechino, vi assicuro che non sarei così distrutto. Lavorare più di così non è possibile». Lo sostiene il compagno di squadra Giorgio Rubino dalle pagine della Gazzetta.it (21.08.09): “[…] Chi di voi ha mai visto dove viviamo, cosa facciamo durante l’anno, quanta fatica siamo capaci di sopportare, cosa significa allenarsi sotto la neve d’inverno quando si è affaticati dal duro lavoro dei giorni precedenti, o sopportare dure ripetute con il caldo estivo? Per noi non è un problema, perché crediamo in quello che facciamo e nel nostro sogno, ma quanti di voi sarebbero pronti a questo rinunciando ai divertimenti, andando a letto alle 22 per superare i propri limiti e allenarsi con dedizione? Quando noi cominciamo la preparazione entriamo in un tunnel che si chiude al termine dell'appuntamento estivo e questo tunnel dura solitamente intorno ai 9 mesi. Quanti di voi hanno questa forza mentale?”. Anche Elisa Rigaudo, ai microfoni Rai subito dopo il deludente 9° posto di Berlino, dice più o meno cose simili.
Un tempo (invero una decina di anni fa) scrissi che i marciatori ricordano agli uomini il senso della fatica, nel silenzio. Dordoni, Pamich, Damilano non ricordo averli mai sentiti rimarcare il peso dei loro sacrifici in opposizione alla seduzione dei piaceri della vita mondana. Il piacere della fatica sportiva, nel silenzio, questo è ciò che offrivano i nostri marciatori al mondo. Il silenzio come consapevolezza della propria forza interiore, della lucida e naturale capacità di ripartire da un’occasione perduta. Perché nulla è scontato. Neanche la vittoria di un supercampione.